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 2012  luglio 13 Venerdì calendario

QUESTA NON È UNA MANO



La notte del primo novembre 2008, i ribelli iracheni lanciarono due granate contro un Humvee corazzato, a Baghdad. La prima fece cilecca. La seconda esplose e un getto di rame liquido raggiunse il gomito destro del sergente Glen Lehman. Il metallo liquido colò sulla pancia, ustionandogli la coscia destra, e poi sull’avambraccio sinistro. A bordo dello Humvee c’era anche il medico del plotone, che cominciò a curarlo al buio, in un caos di sangue e fumo e rottami. Il sergente venne trasferito in Germania, dove i medici gli amputarono sopra il gomito quel che restava del braccio destro. «Tutti mi chiedono che cosa sentissi», dice Lehman. «La risposta che posso dare è che è come avere una mano chiusa in continuazione dentro la portiera». Di solito, a un veterano come lui si applicherebbe un arto artificiale e la vita andrebbe avanti. Ma il moncherino di Lehman aveva la forma giusta per tentare una chirurgia sperimentale chiamata “reinnervazione mirata del muscolo”. E lui si dichiarò pronto a provarla. I chirurghi tirarono i nervi che controllano il gomito e la mano e li spostarono. Il nervo radiale distale, che regola l’apertura della mano, andò al capo laterale del tricipite. Il nervo mediano, che controlla la chiusura della mano, andò al capo mediale del bicipite. L’intervento ha strani effetti: la pelle di Lehman ha dei guizzi quando lui pensa al movimento del braccio mancante. Quando tenta di chiudere la mano, il bicipite si contrae. I nervi reindirizzati dovrebbero migliorare il controllo di una nuova protesi, che attraverso un computer legge gli impulsi mioelettrici che si generano nel muscolo. In breve, quando il sergente “indossa” il nuovo braccio è una sorta di cyborg. Ma l’essere un cyborg si è rivelato un po’ diverso dalle promesse della fantascienza. All’istituto di riabilitazione di Chicago, Lehman indossa per la terza volta il braccio sperimentale. Una ricercatrice gli infila sul moncone una manica di stoffa imbottita con otto paia di elettrodi a forma di disco. Poi la protesi viene messa sopra la manica e fissata al torace con una fascia. Il braccio è un insieme di varie protesi: il gomito e l’avambraccio vengono da un’azienda del Massachusetts; il polso rotante dalla Germania; la mano dalla Cina. Peso complessivo: poco più di due chilogrammi. Lehman con la mano sinistra preme un bottone nell’incavo del gomito e il braccio comincia a fare una serie di movimenti automatizzati. Piega il gomito e lo raddrizza. Muove il polso. Poi la mano ruota compiendo uno sconcertante giro completo. E finalmente il pollice e l’indice si chiudono a tenaglia, per riaprirsi subito dopo. Sembra un tai-chi robotico. Osservando il braccio mentre compie questi movimenti, Lehman immagina movimenti analoghi dell’arto mancante. L’esercizio mentale innesca nel moncone un’attività neuromuscolare recepita dagli elettrodi. Un computer grosso come un telefonino, fissato con il velcro all’imbracatura dietro la spalla, collega i movimenti del braccio ai desideri del paziente. La mano oppone il pollice e l’indice, Lehman cerca di dire alla mano mancante “chiudi il pollice e l’indice”, e il computer ricorda l’attivazione muscolare cui dà luogo questo pensiero. Lehman deve compiere questa procedura ogni volta che gli fissano il braccio perché i sensori non vanno mai a finire nello stesso punto. E anche il moncone di Lehman cambia da un giorno all’altro. Suda. La pelle cede. I muscoli si contraggono e rilasciano. E, cosa ancora più importante, cambia il cervello di Lehman. Domani potrebbe visualizzare in modo diverso i movimenti del braccio. Una volta finito l’addestramento, Lehman si esibisce. Chiude la cerniera lampo del giubbotto. Apre il frigo e tira fuori una bottiglia di plastica. Prende addirittura un quarto di dollaro dal tavolo e lo infila in una fessura. Eppure il suo controllo è ancora lontano dalla perfezione. Per riuscire a chiudere la lampo ha bisogno di parecchi tentativi. Fa cadere la bottiglia. E pasticcia un bei po’ con il quarto di dollaro. Il braccio a volte si inchioda per qualche secondo, mentre Lehman lo guarda. È nuovo, e a volte ci vogliono parecchi mesi per dominare perfettamente anche le protesi convenzionali. Ma il sistema è fragile, e va in confusione davanti a qualunque cosa esuli dalla sequenza iniziale di tai-chi. I muscoli e i nervi del moncone del sergente si sovrappongono, generando un segnale rumoroso e ambiguo. «Se sollevi il braccio, possono esserci interferenze con altri muscoli», dice Todd Kuiken, l’inventore della procedura di reinnervamento. E cosa succede se Lehman chiede al braccio di fare qualcosa che il braccio non capisce? «Farà meglio che può», dice Levi Hargrove, uno dei suoi sviluppatori. Il problema ancora oggi affligge universalmente la ricerca nel campo delle protesi. Gli arti artificiali controllati dal computer sono in grado di eseguire solo pochi comandi. «A volte i pazienti arrivano qui convinti che avranno un superbraccio che funziona bene come quello vero. E tu sei costretto a spiegare che no, ti dispiace, ma non è così», dice Kuiken. Si sperava che le cose sarebbero andate meglio. Una decina d’anni fa, i ricercatori sembravano sul punto di creare un’interfaccia funzionante tra il corpo e la macchina e arti più avanzati avrebbero letto i comandi direttamente dal pensiero. Nel 2004, alla Brown University, un paziente tetraplegico riuscì a giocare a Pong utilizzando un braccio robotico controllato attraverso elettrodi impiantati nel cervello. Nel 2008 dei ricercatori della University of Pittsburgh esibirono una scimmia che mangiava guidando con la mente iLimb, un braccio robot. Si era convinti che di lì a non molto esseri umani amputati avrebbero potuto usare quegli arti per allacciarsi la cravatta e piloti avrebbero potuto far volare jet con la forza del pensiero. Nel 2006 l’agenzia americana Darpa (De- fense Advanced Research Projects Agency) aveva avviato un programma per costruire nel giro di quattro anni un braccio «controllato direttamente dai segnali neurali», fornito di capacità «quasi identiche a quelle di un arto naturale». La scadenza è ormai superata da due anni e quelle ambizioni appaiono totalmente irrealistiche. Con 153 milioni di dollari di fondi e anni di ingegneria, il massimo cui può aspirare un amputato, oggi, è un braccio pesante e goffo che si muove con lentezza, non ha sensibilità e spesso travisa le intenzioni del suo proprietario. «Il braccio umano è stupefacente», dice Rahui Sarpeshkar, un bioingegnere del Mit. «A livello locale esegue un sacco di calcoli molto intelligenti, più del cervello. E noi non ne comprendiamo gli schemi di codifica». In altre parole, la scienza è ancora decisa- mente indietro rispetto alla fiction. Un vero arto bionico richiederebbe una profondità di comprensione e una complessità tecnologica che oggi non sono alla nostra portata. Non è solo un problema ingegneristico. È un problema di scienza di base. Dall’altra parte della strada rispetto all’istituto di riabilitazione di Chicago che ospita Lehman, un macaco di nome Thor è legato a una sedia. La sua mano minuscola tiene stretta una sbarra metallica al termine di un braccio fissato sotto il monitor di un computer. Il braccio è incardinato: Thor non lo può sollevare o abbassare, ma lo può muovere da una parte e dall’altra e avanti e indietro. E quando Thor muove la sbarra, un punto giallo sullo schermo si muove nella stessa direzione. Il macaco ha diritto a un sorso di succo di frutta ogni volta che riesce a far entrare il punto giallo in un riquadro dello schermo. Quello che Thor non sa è che la sbarra non è collegata a nulla. È solo un trucco meccanico per far sì che il suo cervello impartisca i comandi giusti. Alla porzione di cervello che controlla il braccio è applicato un quadratino con 100 elettrodi, collegato a un computer. I ricercatori hanno analizzato per mesi cosa fa il cervello di Thor quando la sua mano si muove. Hanno cominciato leggendo l’output motorio, lasciando che Thor muovesse la sbarra quando era collegata al cursore per studiare la relazione fra movimenti e attività neurale. Poi hanno sistemato il computer in modo tale da fargli fare il contrario: dedurre il movimento del braccio osservando l’output neurale. Mentre Thor lavora, sullo schermo si contorcono dozzine di linee colorate, ognuna delle quali rappresenta l’intensità e la frequenza delle singole attivazioni neurali. Quando un neurone si attiva, il computer fa “click”. Ascoltando, riesci a capire quanto si stia dando da fare il cervello. Quello che si sente somiglia allo scoppiettio dei popcorn. È un approccio differente da quello che Kuiken ha adottato con Lehman. Intuitivamente, andare dritti al cervello sembra un’idea più brillante. Il problema è che nessuno sa come faccia il cervello a fare ciò che fa. I neuroscienziati sanno come i neuroni passano il segnale da una cellula all’altra, ma come da quella rete emerga un’intenzione resta ancora in gran parte un mistero. Il cervello cambia da un istante all’altro. Lo stesso compito potrebbe essere svolto, in occasioni diverse, da neuroni diversi. Nel 2007 Krishna Shenoy, un neuroscienziato di Stanford, ha osservato i singoli neuroni di una scimmia, mentre questa ripeteva le stesse operazioni. Shenoy ha scoperto che un determinato neurone può essere molto attivo nel corso di un test e completamente inattivo in un altro. Che cosa fa davvero quel neurone? Nessuno ne ha idea. E così il computer che sta cercando di tradurre le intenzioni di Thor le deduce approssimativamente, su base statistica. Queste deduzioni sono inevitabilmente imprecise, il punto giallo non si muove linearmente come il braccio di Thor. Tremola come se soffrisse di ansia da palcoscenico. Gli umani non fanno di meglio. John Donoghue è il neuroscienziato della Brown University che ha costruito per un tetraplegico quell’interfaccia per giocare a Pong. Lo scorso novembre ha annunciato di aver collegato un paziente paralizzato a una nuova versione del suo congegno. Il tutto con un braccio artificiale costruito dalla Deka (azienda fondata dall’inventore di Segway). Il paziente non è riuscito ad afferrare la palla più di una volta su due. Con Thor il metodo statistico funziona quando le azioni che lui compie sono poche. L’animale è addestrato a muovere un solo braccio in un solo modo: questo riduce il numero delle cose che i suoi neuroni faranno, aumentando le probabilità che il computer riesca a riconoscere uno schema di attività neurale. È una situazione che può esistere solamente in laboratorio. «Credo che sia una tecnologia perfetta per un paziente con lesioni spinali, non molto mobile», ammette Kuiken. «Non è applicabile a un amputato che se ne va in giro e gioca a calcio». Per gli impianti più massicci, come per esempio gli stimolatori usati nella cura dell’epilessia e della depressione, i movimenti della testa non sono un problema. Gli elettrodi in quel caso sono grossi, se paragonati ai neuroni. Ma per gli aghi microscopici delle interfacce cervello-computer, il movimento della testa è un vero problema. Questi aghi monitorano neuroni la cui larghezza varia tra i 20 e i 50 micron. Gli elettrodi come quelli di Thor sono anche vulnerabili dal punto di vista fisico: sono fatti di metallo. Il corpo è pieno di acqua, sale e di una serie incredibile di altre sostanze chimiche. Mettere insieme le due cose è come cercare di legare una forchetta a una bistecca. La bistecca reagisce e tenta di sciogliere la forchetta ossidandola e trattandola per ciò che è: una minaccia. Allo stesso modo, quando è messo a contatto con corpi estranei, il cervello sviluppa una risposta infiammatoria, detta “gliosi”, che avvolge gli elettrodi per creare una barriera. Con il tempo gli elettrodi vengono incapsulati in un tessuto che funge da isolante. Gli ingegneri sono al lavoro per prevenire la gliosi con delle coperture anti-infiammatorie. E in alcuni casi la gliosi non è un problema. Ma anche così, impianti che funzionano bene in un cervello possono fallire in un altro. Il braccio di Glen Lehman non è goffo perché i suoi motori sono lenti. Di per sé il braccio si può muovere con velocità e grazia. I bracci robotici, dopotutto, sono in grado di assemblare auto ed eseguire interventi chirurgici. Il problema del controllo neurale non sta nell’arto, ma nella nostra comprensione, lacunosa, dei segnali. Il cervello animale registra i movimenti delle parti del corpo con una sorta di sesto senso chiamato “propriocezione”. Tu sai esattamente dove sia il tuo braccio non perché lo senti caldo, o ti fa male, ma perché lo sai e basta. I recettori degli arti inviano dati sulla posizione attraverso il sistema nervoso, e il tutto viene ricostruito in modo inconscio. «Ci sono recettori nel muscolo. Ci sono recettori nei tendini. Ci sono recettori nelle capsule articolari e perfino nell’epidermide, e tutti contribuiscono alla propriocezione in un modo molto complesso, che noi non capiamo», dice Kuiken. Ironia della sorte, le antiquate braccia finte introdotte due secoli fa danno feedback migliori di quelle inventate dopo. Un cavo attaccato a un’imbracatura apre il gancio o flette il gomito quando il paziente lo tira protendendosi in avanti o scrollando le spalle. Sollevando un oggetto che fa forza sulla protesi e quindi sul moncone di arto, siamo in grado di capire quanto pesa l’oggetto. Molti ancora oggi preferiscono un braccio così, rispetto a quello mioelettrico, a motore. Quindi cosa ci vorrebbe per costruire un braccio artificiale in grado di mandare un feedback propriocettivo al cervello? Negli anni ’30 il neurochirurgo Wilder Penfield scoprì che stimolando elettricamente la superficie del cervello i pazienti avvertivano alcune sensazioni e formicolii in specifiche parti del corpo. E qui entrano ancora in gioco le scimmie. Nel laboratorio dove si studia Thor stanno cercando di far sì che lo stesso tipo di elettrodi usati nel cranio del macaco spedisca segnali elettrici direttamente nella parte di cervello in cui si pensa arrivino gli input propriocettivi. L’idea è quella di far credere a una scimmia che lei stia tenendo in mano una leva in movimento. Finora gli animali hanno reagito come se la leva si fosse mossa. Dopo aver addestrato la scimmia a spingere la leva a destra quando la sente muoversi, i ricercatori mandano un segnale agli elettrodi, e la scimmia muove la mano come se sentisse la pressione della leva. Ma nessuno sa quale sia la sensazione prodotta dall’input. Non c’è modo di chiederlo alla scimmia. I ricercatori della Caltech e della University of Pittsbur- gh, che stanno lavorando all’interfaccia neurale di un nuovo braccio motorizzato, contano di integrare nell’aprile 2013 questo genere di dati sensoriali in esperimenti condotti su esseri umani. Naturalmente l’impiego di tante risorse significa che si è presa per buona un’assunzione fondamentale, ovvero che il cervello sia il centro di controllo degli arti. E se non lo fosse? Ci vogliono 300 millisecondi perché imbraccio spedisca un messaggio al cervello, e perché il cervello risponda. Se questo fosse l’unico modo di controllare la mano, non riusciremmo mai a tenere in equilibrio un vassoio, o ad appendere un abito. Queste attività richiedono un grado di controllo dei movimenti di precisione che sembra superare di molto, in quanto a velocità, i segnali che entrano ed escono dal cervello. Questo ha indotto alcuni ricercatori a ipotizzare che il cervello abbia delegato al midollo spinale compiti che richiedono una risposta rapida. Il midollo è più vicino al braccio ed è in grado di rispondere a velocità dieci volte maggiore. In altre parole, il midollo spinale non è una linea muta. È un co-processore. Sfortunatamente mettere degli elettrodi nel midollo spinale è ancora più complicato. Geraid Loeb, ingegnere biomedico alla University of Southern California, ha creato un rudimentale “midollo spinale virtuale” basato su un software che controlla i movimenti forniti dal midollo spinale reale. In teoria una tecnologia come questa potrebbe decodificare le intenzioni cerebrali, ma la sfida è ancora aperta. «Se la mano bionica ha questa specie di cervello tutto suo», dice Loeb, «di quali segnali di comando abbiamo bisogno, da parte del cervello vero e proprio, per controllare questa bestia semiautonoma?». I ricercatori restano speranzosi. A Stanford, Shenoy inserisce nel corpo delle scimmie interfacce neurali wireless e registra i movimenti con fotocamere digitali. «Misurando come il cervello controlla il braccio in condizioni più naturali», dice Shenoy, «almeno capiremo come L’attività neurale si collega al braccio». Ma la quantità di dati sarà spaventosa. Shenoy pensa che gli algoritmi per la “riduzione delle dimensioni”, che riducono a pochi elementi ciò che il computer deve interpretare, potrebbe risolvere il problema. Si tratta di matematica piuttosto astratta, ma è il modo in cui si insegna a un computer a distinguere, tanto per fare un esempio, centinaia di razze diverse di cani focalizzandosi su pochissime variabili come il colore del pelo o la forma dell’orecchio. Ma il problema è che la riduzione delle dimensioni funziona meglio con una tonnellata di dati grezzi: l’ideale sarebbe avere input da centinaia di migliaia di neuroni. Ci vorrà parecchio tempo prima che qualcuno riesca a monitorare tutti quei neuroni. Il numero che riusciamo a controllare contemporaneamente si è più o meno raddoppiato ogni sette anni e mezzo, a partire dal 1959. Di questo passo, nel 2026 sarà possibile arrivare a mille. E nel giro di soli 220 anni i ricercatori saranno in grado di monitorare tutti e 100 i miliardi di neuroni del cervello umano. Ma torniamo all’oggi. Todd Kuiken fa l’elenco delle cose che un paziente è in grado di fare con un braccio come quello di Glen Lehman: portare fuori la spazzatura, infilarsi le calze, aprire un vasetto. L’ottimismo sul lungo periodo sembra ragionevole. Le braccia, il midollo spinale e il cervello sono complessi, ma non sono magici. Appena l’anno scorso pareva che la Darpa avesse risolto il problema. L’agenzia aveva annunciato sul suo sito che i suoi ricercatori avevano «approntato un braccio artificiale da sottoporre a trial clinici» in grado di fare tutte le cose promesse nel 2006, controllo neurale incluso. Ma un braccio del genere non esiste e un addetto alle pubbliche relazioni della Darpa ci ha spiegato che la formulazione dell’annuncio sul sito non era corretta. Tornato a casa sua in Pennsylvania, il sergente Glen Lehman indossa un vecchio braccio artificiale meccanico che usa per fare giardinaggio. «Resiste meglio ai maltrattamenti e posso anche provvedere da solo ad alcune riparazioni», dice. A intervalli di qualche mese Lehman toma all’istituto di riabilitazione di Chicago per fare pratica con il suo arto sperimentale e i nervi ricollegati. Questa versione è ben lungi dall’essere perfetta, ma c’è sempre una prossima volta, e un’altra dopo ancora.