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 2012  luglio 13 Venerdì calendario

DE NIRO


Te ne accorgi da come cammina, dal modo in cui saluta, da come ciondola la resta o inforca gli occhiali per leggere, dal tono che usa per ordinare il caffè al cameriere, dalla pazienza che sfodera per affrontare tutti quelli che nel tragitto dal bar all’ingresso dell’albergo lo fermano per stringergli la mano, farsi fotografare con lui, ringraziarlo, perché sono cresciuti con i suoi film. A chiedergli l’autografo sono anche i più insospettabili: quando si tratta di Robert De Niro, non c’è verso, tutti diventiamo fan. Lui, l’Attore il cui nome indica ormai una professione intera, l’uomo diventato figura retorica, porta in giro il peso della leggenda con rassegnata leggerezza. E riservando qualche sorpresa. Te lo aspetti scorbutico, perché così lo hanno sempre descritto, ma in realtà è di ottimo umore. Sei preparata a sentirgli bofonchiare annoiate sillabe senza senso, invece risponde sul serio, anche se l’argomento è inevitabilmente la vecchiaia, ché anche le leggende sono arrivate alla soglia dei 70. Per la precisione, 69 anni il 17 agosto: auguri. E per la cronaca: li porta benissimo. Camicia chiara e pantalone azzurro leggero, capelli bianchi, una manciata di film in uscita il prossimo anno: Killing Season con John Travolta, la commedia The wedding con Diane Keaton, Freelancers con Forest Whitaker, e almeno altri quattro titoli previsti. Già sappiamo che non saranno tutti memorabili, ma pazienza. Lei lavora ancora tanto. Come mai? Si annoia a casa? «Non sono più i tempi di una volta. Adesso si girano film in tre, quattro, sei settimane al massimo. Sembra che io lavori tanto, in realtà si tratta di un impegno molto limitato nel tempo, che mi lascia spazio per dedicarmi ad altro, per esempio al Tribeca (il festival di cinema fondato da De Niro nel 2001, ndr). Oggi non esistono più produzioni come quelle di C’era una volta in America: per girarlo, Sergio Leone ci mise un anno». A proposito di C’era una volta in America: la versione restaurata e inedita (sei scene in più, per un totale di 20 minuti rispetto all’originale del 1984, ndr) è stata presentata in anteprima all’ultimo Festival del cinema di Cannes. Lei c’era: che effetto le ha fatto rivedersi? «Commovente. Non lo vedevo da quando lo abbiamo girato. È un film ambizioso, ed è il progetto più lungo a cui abbia mai lavorato. A un certo punto ho avuto quasi l’impressione che Sergio Leone non volesse neanche finirlo, ma continuare a girare all’infinito». Gli appassionati di cinema ancora discutono del sorriso finale del “suo” Noodles: alcuni sostengono che quella smorfia significa che tutto il film, quindi l’intera vita del protagonista, sia in realtà un sogno. Si sente di sposare una tesi del genere? «In realtà non ricordo neppure se quel sorriso fosse previsto dal copione o se fosse nato lì, all’istante... Tutto un sogno? Chissà. Ognuno ci vede quello che vuole». La cinematografia americana ormai è dominata dai Supereroi: le interessa il genere? «No, ho sempre preferito interpretare personaggi comuni, eroici nell’affrontare le difficoltà di ogni giorno, capaci di cose straordinarie oppure di azioni orribili. Quando ero ragazzino i miei eroi erano gli attori: Montgomery Clift, Marlon Brando e un’attrice straordinaria che si chiamava Barbara Harris. Non so neanche se sia ancora viva (lo è, in realtà: questo mese compie infatti 77 anni, ndr)». Woody Allen dice che continua a fare film per non annoiarsi e, soprattutto, per non dover pensare al senso della vita... «Lo capisco benissimo: anche per me è così. E poi che ne sappiamo noi del senso della vita?». Lei a quale conclusione è arrivato? «Più invecchio e meno certezze ho. Anzi, no, non è esatto: certe cose oggi le so perché le ho imparate dall’esperienza. Riguardano i rapporti professionali, ma anche quelli con i miei figli. A volte sbaglio ancora, altre non so come andrà a finire, ma è vero che, grazie all’esperienza, posso prevedere certe situazioni e comportarmi di conseguenza». L’esperienza funziona un po’come un calcolo statistico? «Esattamente: se cinque volte su dieci è andata così, be’, allora c’è la probabilità che anche la prossima vada allo stesso modo. Magari poi non ci va, però l’esperienza ti mette a disposizione qualche strumento in più». Alla storia, raccontata da alcuni, che la vecchiaia è bella, lei ci crede? Oppure pensa che, in realtà, sia solo un modo di raccontarsela? «Guardi, Donna Summer è morta a 63 anni: ovvio che la vecchiaia è una fregatura. Se però sei fortunato abbastanza da fare quello che ti piace e avere anche successo, be’, alla fine non ti puoi lamentare». Invecchiando si diventa più saggi, almeno? «Sì, ma anche più malinconici. E più realistici: il tempo passa e vuoi essere sicuro di non sprecarlo». In uno dei suoi ultimi film, Capodanno a New York, lei interpretava un malato terminale. È stato un modo per esorcizzare la paura della morte? «Non so se definirla paura. É una cosa inevitabile: a essere sincero, ci penso rutti i giorni, almeno una volta al giorno, anche solo per un secondo. È davvero un attimo, poi passa, te ne dimentichi, e vai avanti».