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 2012  luglio 13 Venerdì calendario

VIAGGIO AL CENTRO DEL CALDO


Il cielo sopra Buffalo non promette nulla di buono: troppo cielo, troppo sole, troppo caldo. Almeno fino a domenica la sete non passerà. Ma poi: il 15 per cento di pioggia che il Weather Channel pietosamente promette riuscirebbe davvero a bagnare almeno la speranza? Sono giorni e giorni e giorni che l’Oklahoma suda secco. Insieme con tutto il Midwest: spedendo alle stelle i prezzi del granaio d’America che serve mezzo mondo — e facendo già temere per le rivolte del pane in ogni angolo del pianeta.
Brucia il Midwest. Brucia con il 61 per cento dei “lower 48”: gli Stati che formano
la struttura continentale degli Usa — Alaska ed isole escluse. È l’estate più secca da quando negli States è stato introdotto il Drought Monitor, il monitoraggio della siccità. E il viaggio al centro del caldo comincia proprio da qui, Buffalo, Oklahoma, da questo villaggio di 2000 anime che in queste ore ha fatto registrare il record dei record: 107 gradi Fahrenheit. Sono 41.6666667 gradi Celsius. Temperature da forno. Temperature che per la gente del posto rimandano a un incubo che è anche una maledizione: quello della Dust Bowl. La grande Bolla di Polvere che nell’America disidratata dalla siccità si levò negli States già strangolati dalla Grande Depressione.
Oggi come allora. Con la differenza che adesso, nell’America della Nuova Recessione, a gridare tutta la rabbia non c’è neppure un Woody Guthrie, l’eroe del folk nato proprio a due passi da qui, Okemah, il 14 luglio di cent’anni fa.
Il cielo sopra Buffalo illumina la verità che l’America e il mondo si rifiutano ancora di accettare: nulla sarà più come prima, nuovi record cancelleranno quelli vecchi, il sole brucerà ancora e sempre più. E la colpa è solo e soltanto nostra: il global warming, il surriscaldamento globale prodotto dall’uomo. L’ultima prova è ancora fresca — almeno questa — di stampa.
Il titolo non è gridato come piace ai media: «Gli eventi estremi del 2011 spiegati dal punto di vista climatico». Ma non serve inoltrarsi per tutte le 46 pagine del rapporto firmato da Thomas C. Peterson, Peter A. Stott e Stephani Herring per accorgersi che lo studio degli scienziati del Noaa, National Oceanic and Atmospheric Administration,
segna davvero
un punto di non ritorno. E la chiave è proprio in quel titolo che sembra ultrapiatto: «Gli eventi estremi del 2011». In che anno siamo? Che domande: il 2012. Ebbene, finora gli scienziati si erano spinti a interpretare i disastri climatici alla luce del
global warming
soltanto dopo aver collezionato dati a distanza di anni. Per la prima volta, invece, gli scienziati sono ora così fiduciosi da spingersi a interpretare il passato prossimo: con un’occhiata che si allunga inevitabilmente fino ad oggi.
Lo studio arriva in un momento due volte particolare. Il ventennale dell’Earth Summit del 1992 si è appena concluso a Rio con una conferenza sul clima più triste del giorno dopo il Carnevale: e senza soprattutto l’ombra di un leader mondiale. Qui negli States proprio quel Barack Obama che aveva fatto passare alla Camera una rivoluzionaria legge sull’ambiente — poi bloccata dai repubblicani — ha ammainato ogni vessillo verde in vista delle elezioni. Protezione dell’ambiente è un’espressione che nell’inglese
d’America viene tradotta con disoccupazione: i limiti imposti all’industria vissuti come freno all’occupazione. Come se non bastasse, le divisioni si contano tra gli stessi scienziati. «Questa è davvero una scienza nuova e bollente» gioca con le parole Philip W. Mote. «È materia controversa », riconosce con il
New York Times
questo scienziato dell’Università dell’Oregon che sta indagando proprio sull’ondata di caldo e siccità che ha colpito l’anno scorso il Texas. La materia è controversa ma il
senso è piuttosto chiaro: non è facile, spiega il professore, trovare gli strumenti per dimostrare che questi eventi non sono causati semplicemente dal caldo, antico come il mondo, ma da tutte le porcherie che spediamo da qualche secolo nell’atmosfera.
Anche in questo lo studio appena pubblicato è davvero un passo avanti agli altri. Dopo tutte le polemiche sui dati con-traffatti, la guerra delle email rubate tra scienziati, i
mea culpa
per gli studi ritoccati per il bene della lotta al
global warming,
l’ultima ricerca non sostiene apoditticamente che davvero è tutta colpa del surriscaldamento globale. Gli scienziati hanno indagato su una serie di fenomeni. E hanno scoperto che la grande sete del Texas e la siccità che ha colpito l’anno scorso l’Inghilterra hanno avuto rispettivamente il 20 e il 61 per cento in più di possibilità di propagarsi proprio per colpa dell’uomo. Mentre, per esempio, la disastrosa alluvione in Thailandia — sempre del 2011 — non è dovuta al surriscaldamento. Cioè, la manina colpevole dell’uomo qui c’entra sempre: ma si tratta della cattiva gestione dell’ambiente che ha portato al disastro idrogeologico — e quindi alla catastrofe umana e poi umanitaria. Il buco nell’ozono e lo scioglimento della calotta polare — i due fenomeni ripetuti come mantra dai sacerdoti del
global warming—
stavolta non c’entrano: quelle piogge
non sono poi state così fuori norma.
Ovviamente, però, è agli altri dati che bisognerebbe guardare. E cioè al 20 e al 61 per cento di possibilità di disastro in più portati dal surriscaldamento negli altri due casi. Cifre paurose almeno quanto le temperature a tre cifre fatte segnare in questi giorni dal termometro Fahreneit. «Questo è l’effetto del
global warming
a livello regionale e personale» giura al
Washington Post
Jonathan Overpeck, climatologo dell’Università dell’Arizona. «Gli aumenti eccezionali della temperatura aumentano le ondate di caldo, la siccità, gli uragani e pure gli incendi. Ed è esattamente su questo che io e altri colleghi stiamo da tempo lanciando l’allarme». L’emergenza siccità non è naturalmente sfuggita all’ambientalista più famoso d’America e forse del mondo, l’ex vicepresidente Al Gore, che denunciando il surriscaldamento climatico ha vinto un Nobel e un Oscar. «Ecco che cos’è una crisi climatica », ha scritto sul suo blog l’autore di
Una verità scomoda.
Ricalcando parola per parola la denuncia di Michael Oppenheimer, il climatolgo di Princeton anche lui Premio Nobel: «In questi giorni abbiamo la possibilità di affacciarci alla finestra per vedere che cos’è davvero il global warming. Ed è così che si presenta. Afa. Incendi. Ogni tipo di disatro ambientale». Che fare? «Purtroppo gli scettici e i negazioni-
sti del clima ci hanno messo nella situazione per cui ci troviamo, oggi, di fronte due sfide. Adattarci, da una parte, al cambiamento climatico nel quale siamo ormai intrappolati, cercando nello stesso tempo di ridurre le emissioni: ed evitare il peggio delle conseguenze già in atto». Aarron Huertas rivela a
Repubblica
tutta l’amarezza per il tempo perso in questi anni. L’Union of Concerned Scientists è tra i più antichi gruppi Usa di militanza ambientale. E adesso guarda con consapevolezza agrodolce agli ultimi studi: «Dovevamo passare attraverso una serie di eventi così disastrosi perché la gente si accorgesse che il clima che stiamo vivendo non è più quello in cui siamo cresciuti... ». Già. Ma riuscirà il viaggio al centro del caldo a risvegliare la volontà politica di dire basta? Perfino il
New York Timesha
affidato a un editoriale tutto il suo pessimismo: «La storia è piena di sciagurati episodi in cui l’umanità non è stata capace di leggere i segnali: la superaratura che portò alla Bolla di Polvere, la pesca eccessiva che ha portato allo svuotamento degli oceani. L’ondata di caldo è solo l’ultimo di tanti messaggi climatici che dovrebbero essere così facili da leggere». Ma il cielo sopra Buffalo non promette nulla di buono: e da Washington al resto del mondo sono ancora in troppi a chiudere gli occhi di fronte al sole sempre
più accecante.