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 2012  luglio 13 Venerdì calendario

Per una montagna di fiorini Firenze finì nel fango – «Crisi finanziarie: una pianta sempre verde», ha scritto Charles P

Per una montagna di fiorini Firenze finì nel fango – «Crisi finanziarie: una pianta sempre verde», ha scritto Charles P. Kindleberger, lo studioso che più di ogni altro ha indagato sulla loro natura e sulle loro cause. Una pianta che ha origini lontane. I primi semi sono stati gettati nel momento in cui è nata la moneta e i suoi rami hanno continuato a prosperare nel corso dei secoli fino a raggiungere le dimensioni inusitate che abbiamo conosciuto di recente. Una delle radici di queste crisi è, secondo Robert J. Shiller, “l’euforia irrazionale” che coglie gli uomini ogni volta che si prospettano facili guadagni. Chi non sarebbe attirato dalla prospettiva di arricchirsi in poco tempo? Solo che si tratta quasi sempre di una prospettiva illusoria che inonda di denaro pochi fortunati e lascia sul terreno un lugubre corteo di vittime. Dal 1720 a oggi si sono contate, secondo un calcolo molto prudente, più di 30 crisi, una più disastrosa dell’altra. Com’è possibile che non abbiano insegnato proprio nulla, che le speculazioni più avventate continuino a coinvolgere ingenui speculatori, famosi economisti, oltre, beninteso, una fiumana di operatori che travalicano con sovrana indifferenza il confine della legalità? Ce lo chiediamo ogni volta che la borsa precipita, che le banche vengono travolte da perdite miliardarie, che i governi dichiarano di non poter rimborsare la montagna di debiti sovrani accumulati nel corso degli anni. John Kenneth Galbraith ha proposto una spiegazione semplice e, nello stesso tempo, avvincente: la memoria storica si esaurisce nell’arco di una generazione (oggi, lo possiamo constatare sempre più spesso, svanisce ancora più rapidamente) e non dobbiamo perciò meravigliarci se gli errori si ripetono ogni volta. Anche perché, quando l’euforia irrazionale prende il sopravvento nessuno è disposto ad ascoltare le rare voci fuori dal coro. Perché dar credito ai profeti di sventura e non a chi ci promette un futuro nel quale nessun sogno è proibito? Fattori psicologici, errori di valutazione, avidità senza confini, eventi imponderabili, sono gli ingredienti di tutte le crisi finanziarie, quelle di ieri come quelle di oggi. Per esempio li troviamo tutti all’opera nella crisi che sette secoli fa travolse le grandi banche fiorentine mettendo in ginocchio una delle più fiorenti economie del tempo. Nel corso del Duecento, Firenze ebbe uno sviluppo eccezionale e, come ha scritto Carlo M. Cipolla, «alla fine di quel secolo arrivò a rappresentare pel mondo quel che Londra rappresentò nell’Ottocento: non solo un grande centro culturale, commerciale e manifatturiero, ma anche la principale piazza finanziaria del tempo». Ma come tutti i “miracoli” anche quello fiorentino si affievolì tramutandosi, fra il 1340 e il 1350, in una vera e propria débâcle. I “fiorentini”. Per capire meglio la natura degli eventi che scossero la città toscana alla metà del Trecento occorre tenere a mente che la figura centrale dell’economia urbana era il “mercante-banchiere”, una figura che svolgeva, nello stesso tempo, le funzioni di commerciante, imprenditore e banchiere. All’inizio la fortuna di questi personaggi si fondò su una straordinaria capacità di sfruttare ogni occasione per accumulare denaro che veniva prontamente investito in qualsiasi affare redditizio. L’ulteriore espansione dell’impresa richiedeva però nuovi capitali raccolti dapprima fra i membri della famiglia e poi sotto forma di depositi, qualcosa di simile ai nostri conti correnti. Si formarono così le grandi compagnie che nell’arco di qualche decennio allungarono i loro tentacoli in tutta Europa. Per limitarci alle due maggiori compagnie fiorentine, fra il 1331 e il 1343 i Peruzzi poterono contare sulla collaborazione di 133 fattori; fra il 1310 e il 1345 nella compagnia dei Bardi passarono 346 fattori che operavano in 25 filiali, di cui 12 in Italia e le altre sparse fra Londra, Marsiglia, Bruges, Barcellona, Costantinopoli, Gerusalemme, Rodi, l’equivalente di una moderna multinazionale ramificata in ogni angolo del mondo. “Le due colonne della cristianità”, come le aveva definite Giovanni Villani, il più famoso cronista dell’epoca, erano però meno solide di quel che appariva all’esterno. Un proverbio americano recita: “Se devi alla banca centomila dollari, la banca ti possiede. Se devi alla banca cento milioni di dollari, possiedi tu la banca”. A tenere in pugno le grandi compagnie fiorentine non era una banca, bensì due governi. Quello della città che nei primi quarant’anni del secolo aveva visto esplodere il debito pubblico cresciuto da 50.000 a 600.000 fiorini d’oro. «Durate l’euforia dei decenni precedenti», ha scritto ancora Carlo Cipolla, «le compagnie avevano anticipato volentieri al Comune somme sostanziose considerando l’operazione come un investimento di tutto riposo e con un buon rendimento. Ora, tra il 1342 e il 1345, dovettero affrontare una realtà ben diversa: il rendimento crollava e l’esigibilità dei crediti veniva messa in dubbio». Fallimenti a catena. L’altro governo implicato era quello inglese al quale i banchieri fiorentini avevano prestato una montagna di denaro per sostenere la spedizione militare in Francia. Nel 1340 il sogno francese di Edoardo III svanì e fu subito chiaro che il sovrano non era in grado di rimborsare i banchieri. I soli Bardi erano esposti per un ammontare che oscillava fra i 600.000 e i 900.000 fiorini d’oro. I due default, quello di Firenze e quello di Edoardo III, provocarono una catena di fallimenti che iniziò con gli Acciaiuoli, i Bonaccorsi, gli Antellesi; continuò nel 1343 con il crollo dei Peruzzi e tre anni dopo con quello dei Bardi. «Nel detto anno, del mese di gennaio», chiosava Giovanni Villani, «fallirono quelli della compagnia de’ Bardi, i quali erano stati i maggiori mercatanti d’Italia». E più avanti scriveva: «non rimase quasi sostanza ne’ nostri cittadini». Nel crollo delle banche furono infatti coinvolti migliaia di depositanti che riuscirono a farsi rimborsare solo una parte dei depositi, un quinto, un terzo e, in rari casi, la metà. Nelle parole di Giovanni Villani traspare tutta l’amarezza di chi era stato testimone della fine di un’epoca. In effetti dopo il 1346 Firenze non fu più quella che era stata ai tempi di Dante. Può sorprendere che un crollo tanto colossale non abbia avuto sensibili ripercussioni sulle grandi piazze del vecchio continente. Il fatto è che l’economia europea aveva raggiunto in diverse città uno sviluppo straordinario, ma il suo livello di integrazione era molto limitato, e così si salvarono dal contagio. Una bella fortuna, verrebbe da dire pensando alla crisi dell’eurozona. Ma sarebbe un giudizio antistorico e un’aspirazione sbagliata.