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 2012  luglio 13 Venerdì calendario

La Marcia su Roma non fu operetta.– Alla fine dell’agosto del 1921, Dino Grandi, 26enne e già notabile del fascismo, dal momento che in scontri armati si era beccato un paio di pistolettate, e il 25enne Italo Balbo chiesero un abboccamento al Vate

La Marcia su Roma non fu operetta.– Alla fine dell’agosto del 1921, Dino Grandi, 26enne e già notabile del fascismo, dal momento che in scontri armati si era beccato un paio di pistolettate, e il 25enne Italo Balbo chiesero un abboccamento al Vate. Reduce dall’avventura di Fiume, Gabriele D’Annunzio si era da poco ritirato nella villa di Cargnacco trasformata in Vittoriale. I capi delle squadracce fecero all’Imaginifico – a cui peraltro fino a quel momento era andato l’appellativo di Duce mentre a Mussolini spettava quello meno altisonante di prof – una proposta che il lirico non si aspettava. Avrebbe dovuto mandare a ramengo Mussolini, assumere il comando e mettersi alla testa di un manipolo di adepti del fascio per marciare su Roma. Il poeta-soldato chiese tre giorni per riflettere e per “consultare le stelle” e poi declinò ironicamente l’invito: «Non ho avuto nessun responso perché era nuvolo». Un’impresa collettiva. A ricordare l’episodio che rimandò di un anno la presa del potere da parte delle camicie nere è Emilio Gentile, uno dei più noti studiosi del fascismo a livello internazionale, a cui l’incontro è stato riferito direttamente da Grandi. Quest’anno, il 28 ottobre, ricorrono i 90 anni dall’infausta Marcia su Roma. Gentile non è nuovo a colpi di scena con cui accende dibattiti e polemiche: ha appena terminato un saggio dal titolo provvisorio Verso lo Stato nuovo (uscirà a settembre da Laterza), dove ripercorre tutte le tappe di quel trampolino di lancio della dittatura. Un’impresa militare di cui il vero protagonista non fu una sola personalità – ecco la prima novità – ovvero il combattivo e istintivo Mussolini, pronto a scendere in campo senza remore. Al contrario, il futuro Duce nel caso della Marcia indossò le vesti del calcolatore e del tattico mentre la spericolata azione fu frutto di un’impresa collettiva, sostenuta e portata a termine dagli esponenti di punta del neonato Partito nazionale fascista. L’occupazione della città eterna, primo passo verso l’instaurazione del regime, sempre secondo Gentile, è stata di solito sottovalutata e considerata come l’affermazione di un gruppo di scalcinati picchiatori. L’approdo in forze nella Capitale, inquadrato più in un clima da operetta che nella sua reale portata storica, ha finito per essere relegato a un passato lontano e concluso, mentre la sua lunga ombra si estende, invece, sul nostro presente. La Marcia su Roma ha rapporti con la nostra attualità politica, vulnerabile e fragile come quella liberaldemocratica che si vide piombare addosso gli esponenti della milizia fascista? «Procediamo con ordine», sostiene l’ex allievo del gran segugio degli archivi, Renzo De Felice. «Anche dai maggiori storici, come il mio maestro o Alberto Aquarone, la Marcia è stata valutata come la performance di un gruppo di scalmanati, straccioni e incapaci. È stata definita “un’adunata di inutili idioti”, oppure “un’opera buffa”, da Gaetano Salvemini, messa in scena da una masnada di impreparati. Era invece l’ultimo atto della democrazia e inaugurava una nuova era. Senza timore di esagerare si può dire che cambiò non solo la storia d’Italia ma anche quella dell’Europa e del mondo». I primi che non capirono nulla di quello che stava accadendo furono, rileva Gentile, i socialisti di Nenni e i leader comunisti che lasciarono la Penisola e partirono per Mosca, prendendo alla leggera l’imminente pericolo. Ma dell’importanza di quel requiem per la libertà non si accorse nemmeno Ordine Nuovo che, dopo le violente manifestazioni delle milizie a Napoli, il giorno prima della Marcia, sentenziò: «Il fascismo è in disgregazione». Lo stesso Gramsci, dopo il delitto Matteotti, si consolò dicendo che «Il fascismo era un cadavere» e Turati aggiunse che «aveva solo bisogno di una corda a cui impiccarsi». La Marcia invece fu travolgente e l’impatto fu recepito sia all’estero sia dalla maggioranza degli italiani: rappresentò il modello da imitare nel Vecchio continente dove dittature e affini non ve n’erano (con l’eccezione dell’Ungheria di Horthy) e stimolò l’emulazione nel futuro Führer che si cimentò nel fallito putsch di Monaco dell’8 novembre 1923. Mussolini si impose anche perché era il leader rivoluzionario più giovane – a 39 anni divenne presidente del Consiglio mentre Giolitti ne aveva 80 – e i boss del fascismo erano giovanotti sotto i 30. Il Duce fu il più veloce, rispetto a Hitler e a Lenin, a raggiungere il potere e a imprimere la trasformazione al suo movimento in aggregazione di massa, passando dagli 800 ai 200.000 iscritti in brevissimo tempo. L’idea di una pacificazione. Ad avere un ruolo leader nella Marcia non fu il cosiddetto Uomo della Provvidenza. Come mai? «Aveva molti dubbi sull’insurrezione come unica strada. Temeva la reazione dell’esercito e, se gli avessero offerto un ministero, l’avrebbe accettato. Le sue esitazioni si capiscono inquadrando la Marcia nei suoi antecedenti», afferma lo studioso. Ovvero? «Le scelte moderate del prof Benito si erano manifestate nel 1921 tanto che si meritò l’epiteto di traditore. Che cosa era successo? Mussolini aveva avanzato la proposta di un patto di pacificazione con i suoi avversari, voleva mettere in soffitta l’olio di ricino e le bastonate e caldeggiava la nascita di un Partito del Lavoro democratico, laico e riformista, in grado di accogliere socialisti e sindacalisti. La rivolta dei più intransigenti, come Balbo, Farinacci e Grandi, non si fece attendere. Il Duce si dovette piegare. E darà vita al Partito nazionale fascista (Pnf), che fu il primo importante partito militarizzato d’Europa. Nel caso della Marcia, la leggendaria spregiudicatezza, il carattere volitivo e l’amore per il rischio di Mussolini sono inesistenti. Fu invece caratterizzato dal “senso del limite”, come osservarono i contemporanei. L’avventura romana arrivava a compimento per volontà del Pnf i cui membri e le cui milizie avevano già occupato parte dell’Italia settentrionale e centrale senza trovare ostacoli». L’avanzata trionfale non troverà barriere o resistenza nemmeno nel Parlamento, un mondo sclerotizzato (“flaccido”, secondo De Gasperi) e disprezzato pure dagli elettori. Questo arrembaggio alle istituzioni ebbe la funzione di evidenziare tutta la debolezza dello Stato democratico. Una democrazia “recitativa”. Sono tante le somiglianze con l’oggi? «Non credo ai revival dei gagliardetti. Però molte situazioni sono ricorrenti: per esempio, in nome dell’efficienza, Mussolini pensò addirittura di abolire il Senato e di costituire un Consiglio tecnico nazionale che sedesse in Parlamento», dice ancora Gentile. «La Marcia sottolineò quanto fosse precaria e in crisi l’istituzione parlamentare e l’inesistenza di un rapporto tra chi occupava i seggi di Montecitorio e la Nazione, come si diceva all’epoca. I politici, oggi come allora, non costituiscono una casta, che è qualcosa di immutabile, ma un’oligarchia democratica senza legami con la società civile che non si rinnova tramite la libera competizione, ma attraverso la cooptazione. Viviamo in una democrazia “recitativa” e non sostanziale dove si parla di libertà di stampa e di voto come in una recita o uno spettacolo, senza incidere sul potere oligarchico». E, per ironia della sorte, c’è qualcuno che preannuncia le elezioni anticipate proprio per il 28 ottobre. «Già, con una bella differenza» conclude lo storico: «Allora non si votò ma si usò il manganello e il moschetto. Comunque non commettiamo l’errore dei socialisti di un tempo, cioè quello di sottovalutare le fragilità istituzionali».