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 2012  luglio 13 Venerdì calendario

Collezionista di crac– Gianni Versace invitava i suoi ospiti a Miami, Dolce e Gabbana a Portofino, Roberto Cavalli ha una mega villa in Toscana, pensa davvero che io avrei potuto dire ai miei soci: dai, venite nel weekend a Isernia, che ci confrontiamo sul piano strategico

Collezionista di crac– Gianni Versace invitava i suoi ospiti a Miami, Dolce e Gabbana a Portofino, Roberto Cavalli ha una mega villa in Toscana, pensa davvero che io avrei potuto dire ai miei soci: dai, venite nel weekend a Isernia, che ci confrontiamo sul piano strategico...». Isernia in verità, a vederla in queste giornate di sole, arroccata su un’altura in mezzo alle montagne verdissime del Molise, è davvero un bel posto. A Tonino Perna, l’industriale della moda che fino al crac del 2008 valeva una fetta enorme del Pil della regione, oggi al centro di un’inchiesta giudiziaria che tra mille colpi di scena sta arrivando al termine, la sua città d’origine andava però stretta. Per questo, come ha raccontato ai magistrati, aveva messo gli occhi su Capri. Nell’isola madre di tutte le mondanità non si era limitato a una dépendance. Aveva acquistato un albergo - il Weber - e una delle dimore più ambite, Villa Bismarck, celebre per il parco che si affaccia direttamente sulla Marina Grande. Da Isernia a Capri al buco di oltre 600 milioni patito da banche, sottoscrittori di bond e fornitori, la parabola di Perna è una storia che i materiali dell’indagine permettono ora di ricostruire. In città raccontano di un imprenditore partito dal nulla, «lui e il fratello erano sarti», dicono. La prima avventura, i jeans Pop 84, finisce in fallimento. Tonino allora si mette da solo. E decolla. A partire dagli anni Novanta produce linee di abbigliamento come D&G, Just Cavalli, Galliano. Si quota in Borsa. Compra le carte di credito Diners e l’editore Franco Maria Ricci. A Isernia dà lavoro a mille dipendenti, il doppio nell’indotto. Sviluppa griffe sue. Ne compra altre, come la maglieria fiorentina Malo e una delle firme più prestigiose del prêt-à-porter, Gianfranco Ferré. Essere partito dalla gavetta, spiega ai magistrati, è la carta giusta per convincere il sofisticato stilista milanese (scomparso nel 2007) a vendergli l’azienda: «Diceva che i miei concorrenti offrivano di più ma di aver scelto me perché venivo dal pascolare le pecore». A quei tempi Perna sembra andare alla grande. A Villa Bismarck si fanno feste zeppe di volti noti, da Lamberto Dini a Christian De Sica, da Santo Versace a Fabio Cannavaro. Nella scalata alla celebrità, però, non tutto fila liscio. L’albergo Weber lo rivende con gravi perdite a causa, spiega Perna ai magistrati che s’interrogano sulla fuoriuscita di denari, di minacce ricevute dalla malavita locale: «Andavamo lì, mettevamo i lucchetti, e quando tornavamo erano rotti», dice. La moglie Giovanna, poi, si candida a sindaco di Colli al Volturno, dove vivono molti lavoratori, ma non viene eletta, suscitando rancori. Soprattutto, però è il gruppo a faticare e così, nel 2008, Perna finisce gambe all’aria. L’Ittierre ha raggiunto i 700 milioni di ricavi ma i debiti sono cresciuti di pari passo. Non riesce a restituire un prestito e chiede l’amministrazione straordinaria. Arrivano tre commissari che, oltre alle 13 aziende operative italiane, estendono il fallimento a una holding lussemburghese dove c’è il pacchetto di controllo del gruppo, la PA Investments. Perna non si oppone. O pensa di non avere nulla da temere o, magari, fa i suoi calcoli: anche la PA ha parecchi debiti ai quali non è in grado di far fronte (concessi da Efibanca, di cui Perna era stato amministratore). Qui, però, succede il patatrac. Grazie ai quattrini affluiti nel Granducato, la famiglia ha intrapreso una serie di affari che suscitano l’attenzione dei commissari. Non c’è solo Villa Bismarck, le cui spese di ristrutturazione e gli arredi vengono pagati dall’azienda («Motivi di rappresentanza», si difende lui), che la prende in affitto da una fondazione dietro la quale ci sono i figli. C’è anche una vasta collezione di opere d’arte che ha messo insieme per dare linfa a una galleria aperta a Roma e che tiene in gran parte in casa, a Isernia: sono 191 pezzi tra mobili antichi, sculture e dipinti firmati da artisti come Giorgio de Chirico, Mario Sironi, Giacomo Balla, Emilio Vedova e Mimmo Paladino. Partono gli esposti e si attiva la Procura, guidata da Paolo Albano. I magistrati studiano il dossier. Chiamano un noto commercialista di Roma, Giovanni Mottura, per radiografare le operazioni del gruppo. Lo scorso 9 gennaio il primo colpo di scena: Perna viene arrestato, con l’accusa di bancarotta per aver distratto in 15 anni «almeno 61 milioni» dalle società poi fallite. C’è una controllata, la Isernian Consulting, venduta dalla holding lussemburghese all’azienda italiana a valori di gran lunga superiori al patrimonio. C’è un prestito di 6,7 milioni che Perna al momento del crac non aveva restituito. C’è l’accusa di aver giocato sui prezzi delle merci che il gruppo acquistava. C’è un finanziamento da 7 milioni a una partecipata poi ceduta a prezzo simbolico a una società riconducibile all’industriale stesso. E non manca un aumento di stipendio di un milione che Perna si regala poco prima del fallimento. «Ma i fatti emersi sono presumibilmente solo una parte», accusano i magistrati. La reazione di "zio Tonino", come lo chiamavano i suoi dipendenti per prenderlo un po’ in giro, visto che lui non era tipo da pacche sulle spalle, è una furia. Il suo legale, Marco Franco, ottiene dal Tribunale del Riesame di Campobasso non solo la scarcerazione, ma anche qualcosa in più. L’avvocato esibisce una perizia che convalida il prezzo di vendita della Isernian Consulting e che gli investigatori in azienda non hanno rintracciato; è lo stesso perito a fornigliela. Non è vero, dunque, che quell’esborso (55 miliardi di lire nel 1997) era privo di pezze d’appoggio. E i giudici di Campobasso bacchettano i pm: «Quella perizia avrebbero potuto cercarsela». A leggere il testo, nemmeno l’ordinanza che riporta Perna in libertà sembra priva di punti deboli. I giudici esaminano solo due dei numerosi fatti contestati dall’accusa. E neppure confutano l’idea dei pm che l’intera operazione Isernian sia stata organizzata proprio per trasferire la plusvalenza in Lussemburgo. La Cassazione, però, convalida la scarcerazione. Per Perna è una vittoria di tappa che lo fa agire come se avesse in mano l’assoluzione. L’industriale fallito, ma fortunato proprietario di Villa Bismarck e 191 opere d’arte, si scatena: impugna il pagamento dell’onorario di Mottura da parte della Procura; osserva con interesse la denuncia fatta da alcuni ex dipendenti contro le consulenze pagate dai commissari di governo; annuncia una richiesta di risarcimento danni. E, dice l’avvocato Franco a "l’Espresso", chiede l’archiviazione, contro l’orientamento della procura, che sembra invece convinta di avere gli elementi per il rinvio a giudizio. Come finirà, si vedrà. Comunque vada, c’è un aspetto che fa sperare per il futuro dello stabilimento di Isernia. Il nuovo proprietario, Antonio Bianchi della Albisetti di Como, vi sta portando lavorazioni che prima faceva altrove. «Si era impegnato a rioccupare 570 persone, è arrivato a 730», dice Lino Zambianchi della Cgil. Per ora gli addetti usufruiscono di una speciale cassa integrazione: in parte lavorano e in parte fanno formazione sul posto. Ma un filo di speranza c’è.