Emanuele Trevi, Corriere della Sera 12/07/2012, 12 luglio 2012
QUELLA PRIMA FOTO CHE PORTO’ I NOSTRI RICORDI SULLA RETE
Ebbene sì, sembrano secoli, ma sono passati solo venti anni dall’apparizione della prima fotografia messa online sul web. Come quattro dee propiziatrici, o quattro cariatidi destinate a sostenere il Nulla (che è pur sempre il più grave dei pesi) «Les Horribles Cernettes» sono lì a segnare il confine di una nuova epoca. «Cernettes», per inciso, sta per «ragazze del Cern», e il repertorio di questa rock band ginevrina conteneva molte allusioni ai più arcani misteri della fisica, bosone di Higgs compreso.
Un’innovazione tecnologica che si afferma e diventa universale è sempre un prodigio psichico affine alla magia, per il semplice fatto che non riusciamo più a immaginarci un’età precedente in cui quell’innovazione ancora non esisteva. Così, quando raccontiamo ai più giovani che è esistita un’età in cui non si usavano i cellulari, e si riusciva ugualmente a vivere la propria vita, anche se la logica è dalla nostra parte e possiamo contare su prove e testimonianze indiscutibili, veniamo ascoltati con un pizzico di insopprimibile diffidenza, come gente che esagera, o ricorda male, o si lascia trascinare dal moralismo. Attorno alla fotografia delle «Cernettes» si percepisce la stessa aura di incantesimo, di sortilegio capace di modificare la nostra percezione del tempo. Vent’anni sono bastati a farci considerare del tutto naturale la condivisione e la circolazione universali delle immagini. Ogni giorno, i nostri amici ci fanno pervenire immagini di quello che stanno vedendo, proprio in quel momento. E noi stessi, contagiati dalla stessa mania, siamo davvero sicuri di aver visto qualcosa nel momento in cui ne ricaviamo un’immagine digitale da spedire a qualcuno.
Ma questa è solo la premessa di un ulteriore giro di vite psicologico. Potranno anche darsi immagini dotate di una finalità pratica, o di un valore estetico, ma sono come residui del passato, elementi del tutto marginali dell’incantesimo. Solo in apparenza noi condividiamo oggetti, situazioni, paesaggi umani e naturali. La vera posta in gioco è un’altra, ed è nascosta nel vedere in sé, non nel contenuto della visione. Ci piace trasformare la vista, il più soggettivo dei sensi, in una specie di funzione collettiva, una prerogativa di tutti e di nessuno. Vediamo il mondo con gli occhi degli altri e facciamo sì che gli altri lo vedano con i nostri occhi. E la frizione tra il medium e il messaggio produce il suo frutto più maturo, il suo apice mistico: l’insignificanza. Proprio così: perché il mondo possiede un significato solo fino a che l’io che lo osserva se lo lavora in solitudine, geloso come quei vecchi artisti che non permettevano a nessuno di gettare uno sguardo sull’opera prima che fosse perfetta. Ma la solitudine dell’artista, alla maggior parte dell’umanità, non serve a nulla. E l’idea di essere gli unici responsabili di ciò che si vede, capace di sgomentare i filosofi di tutti i tempi, è fonte di un’angoscia intollerabile. Ed ecco che la tecnologia, come una buona fata, interviene per debellare — o almeno mitigare — un motivo di eterna afflizione. Il mondo condiviso è un’utopia, la promessa di una vita affrancata dal dolore. La sua totale mancanza di senso è una promessa, il sigillo di un nuovo patto tra gli uomini. Lo guardiamo a turno, come miliardi di sentinelle che hanno deciso di affrontare insieme il loro turno di guardia. Lo guardiamo tutti, affinché non lo guardi più nessuno. E ci riusciremo, una buona volta, a trasformarlo in qualcosa di totalmente soffice, gommoso, indistinto, incapace di nuocerci. Il lavoro è in corso. E le «Cernettes» sono le madrine più perfette che ci si possa immaginare.
Emanuele Trevi