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 2012  luglio 12 Giovedì calendario

IL LABIRINTO ELETTORALE

Se pensi alla legge elettorale, t’assale un moto di disperazione. Ne è rimasto vittima perfino Napolitano, tanto da scrivere una lettera ai presidenti delle Camere per sollecitarne la riforma. Risultato? I leader di partito si sono dichiarati pronti a votarla l’indomani; ma i giorni passano, senza che il Parlamento cavi un ragno dal buco. D’altronde sono già scadute invano le tre settimane entro cui Bersani e Alfano (l’8 giugno) avevano promesso di raggiungere l’accordo.
Nel frattempo ogni forza politica cavalca almeno un paio di soluzioni contrapposte, sicché il primo problema è di capire da che parte sta il partito. Valga per tutti l’esempio del Pd: la linea ufficiale è per il doppio turno, la bozza Violante punta al proporzionale, i veltroniani spingono per il modello spagnolo, i prodiani vorrebbero riesumare il Mattarellum. Da qui lo stallo. La Camera sta ferma, perché in prima battuta deve occuparsene il Senato. I senatori giacciono a loro volta immobili, perché la riforma costituzionale (fissata il 17 luglio) ha la precedenza su quella elettorale. Nel complesso ricordano quei due signori troppo cerimoniosi: prego s’accomodi, no dopo di lei, e intanto nessuno varca l’uscio del portone.
Davanti a questa scena, hai voglia a dire che la peggiore decisione è non decidere. È vano osservare che una buona legge elettorale va scritta dietro un velo d’ignoranza, senza l’abbaglio del tornaconto di partito. Niente da fare, ciascuno pensa al proprio utile immediato; perfino Grillo ha scoperto le virtù del Porcellum, da quando i sondaggi lo danno in forte ascesa. Anche se spesso i calcoli si rivelano sbagliati. Vale per le riforme della Costituzione approvate alla vigilia d’un turno elettorale, all’unico scopo di guadagnare voti: come quella del governo Amato nel marzo 2001 (due mesi dopo vinse il centrodestra); o come la devolution di Bossi nel 2005 (ma nel 2006 vinse il centrosinistra). E vale per la legge elettorale. D’altronde, anche il Porcellum nacque dall’intenzione — fallita — di tirare uno sgambetto all’avversario.
C’è allora modo di venirne a capo? Forse sì, ma a una doppia condizione: di merito e di metodo. Innanzitutto rammentando che i congegni elettorali non sono fedi, ma strumenti. La loro qualità dipende dalle stagioni della storia, tuttavia non esiste uno strumento perfetto, non c’è una superiorità assoluta del maggioritario o del proporzionale. Esistono però strumenti imperfetti, e noi italiani ne sappiamo qualcosa. Cominciamo dunque a sbarazzarci dalle tentazioni più peccaminose: un premio di maggioranza troppo alto, tale da distorcere il risultato elettorale; l’idea di trasmigrare dalle liste bloccate a un sistema tutto imperniato sulle preferenze (cadremmo dalla padella alla brace); una soglia di sbarramento impervia, o al contrario ridicolmente bassa.
Quanto al metodo, non c’è che da seguire il suggerimento di Napolitano: si voti a maggioranza, al limite con maggioranze alterne sui singoli capitoli. Ma per non generare un Ippocervo, sarebbe bene votare in primo luogo sugli indirizzi generali, dalla scelta dei collegi (sì o no all’uninominale), fino al vincolo di coalizione e a tutto il resto. Poi toccherà agli sherpa tradurre i principi in regole. Sapendo tuttavia che il tempo stringe, ormai è come una corda al collo dei partiti.
Michele Ainis