Guido Crainz, la Repubblica 12/7/2012, 12 luglio 2012
LA CULTURA DEL LAVORO
La figura di Adriano Olivetti sarà centrale nel Padiglione Italia della prossima Biennale di Venezia, progettato da Luca Zevi e dedicato all’architettura del made in Italy. Una figura straordinaria, Olivetti, capace di unire progetto industriale e cultura, modernità e rispetto dell’uomo e del territorio. E di raccogliere attorno al progetto energie culturali differenti e vivissime. Fra i pochissimi a poter scrivere negli anni cinquanta: «in questa fabbrica, in questi anni, non abbiamo mai chiesto a nessuno in quale partito militasse». A pochi chilometri dalla sua Ivrea, nel “mondo Fiat”, bastava la tessera della Cgil per essere licenziati: un passato che credevamo sepolto. Fu criticato duramente anche dal Partito comunista, ed era “anomala” la sua proposta di modernità (solo lentamente il Pci abbandonò allora la categoria dell’“arretratezza” italiana). Sono intellettuali olivettiani a raccontare contraddizioni e traumi della nostra industrializzazione: l’Ottiero Ottieri di
Tempi stretti
(«la campagna distrutta, debole e pallida come il cielo, sembra che non si difenda e che non la rimpianga più nessuno»). O di
Donnarumma all’assalto
(1959), con le illusioni e le disillusioni dello stabilimento di Pozzuoli. Con il doloroso impatto del primitivo progetto – limpido sin dal profilo architettonico – con una realtà di cui l’operaio Donnarumma è espressione
potente.
È del 1961 il pionieristico fascicolo sulla letteratura industriale de
Il menabò,
la rivista diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino, e l’anno successivo esce
Memorialedi
Paolo Volponi, anch’egli “olivettiano” (la fabbrica, «grandissima e bassa, ronzava indifferente (…) era tutta eguale e da qualsiasi parte mandava lo stesso rumore, più che un rumore un affanno, un ansimare forte»). La norma allora non era certo Ivrea ma semmai la Vigevano senza regole “fotografata” da Giorgio Bocca («mille fabbriche, nessuna libreria ») e raccontata nella amara “trilogia” di Lucio Mastronardi. La fabbrica entra poco anche nel cinema di quegli anni, perlopiù con “apparizioni”: con l’Alfa Romeo di
Rocco e i suoi fratellidi
Luchino Visconti (1960) o con quella raffineria di Ravenna che contribuisce all’angoscia di
Deserto rossodi
Michelangelo Antonioni (1964). O con film di minor impatto, sino a
La classe operaia va in paradiso
di Elio Petri (1971), uno dei pochi “omaggi” alla breve stagione dell’“autunno caldo” e della grande industria (seguito nel 1973 dall’“ideologico”
Trevico-Torino. Viaggio nel Fiat-Namdi
Ettore Scola). Una stagione liquidata in modo caustico già dall’Arbasino di
Un paese senza
(1980), irridente verso i «trips accademici fondati sulla metallurgia wagnero- mirafior-marxista». E presto sepolta da quei colossali processi che hanno avuto concreto simbolo nella “dismissione” e nella trasformazione del Lingotto della Fiat a Torino e della Pirelli Bicocca a Milano. Una “dismissione” raccontata per Bagnoli da Ermanno Rea nel 2002, assieme al fallimento delle speranze («Dicevamo: l’Ilva entrerà nel vicolo e lo bonificherà. Alla lunga è accaduto che il vicolo è entrato nell’Ilva e la ha inquinata»). E
Mammut(
1994), romanzo d’esordio di Antonio Pennacchi, ha al centro la “resistenza” di una delle tante piccole fabbriche in declino. Poche voci raccontano questo epilogo anche nel cinema, ad esempio il Paolo Virzì de
La bella vita(
1994). Nulla di paragonabile ai film di Ken Loach o al Mark Herman di
Grazie signora Thatcher,
al Peter Cattaneo di
Full Monty
o al Laurent Cantet di
Risorse umane.
Dopo la breve stagione
del “mito operaio”, è un vuoto su cui interrogarsi.