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 2012  luglio 12 Giovedì calendario

LA TEMPESTA PERFETTA E LE PAURE DELLA CRISI 2.0

Certe volte si fa fatica a credere a Mark Twain: la sua famosa risposta a uno sconsolato amico che gli chiedeva dopo giorni di pioggia ininterrotta se avrebbe mai smesso di piovere («Ha sempre smesso», rispose il grande romanziere) si attaglia anche alla crisi che ancora bagna e sconquassa l’economia mondiale? Siamo a luglio 2012, e fu nel luglio 2007 che nacquero le prime avvisaglie di quella che poi sarebbe diventata la Grande recessione. Sono bastati cinque anni per uscirne? No, siamo ancora nel guado.
La crisi partì dall’America. Un "fallimento del mercato" nella creazione incontrollata di strumenti finanziari opachi e pericolosi, un fallimento della regolazione che non intervenne a tempo per fermare quella bolla del credito, prestiti chiesti da prenditori spensierati e concessi da prestatori irresponsabili, un fallimento della scienza economica, che non aveva sufficientemente analizzato l’interazione fra economia e finanza… Una "tempesta perfetta", insomma, che scatenò i miasmi di un vaso di Pandora nell’intera economia mondiale, innescando sfiducia nelle banche, bloccando i flussi finanziari e portando imprese e famiglie a rimandare le spese, col risultato di scatenare la più grossa recessione del dopoguerra.
Ma le azioni hanno anche delle reazioni, e possiamo essere orgogliosi della reazione. Governi e Banche centrali non fecero gli errori degli anni Trenta. Fu evitato l’arroccamento protezionistico, e una grossa operazione di pronto soccorso portò a stimoli monetari e di bilancio senza precedenti. La recessione non si trasformò in depressione, e sul palcoscenico dell’economia mondiale sembrava potersi delineare una sia pur faticosa ripresa. Faticosa perché la crisi era nata da eccessi di spesa del settore privato, da un indebitamento che aveva portato a bolle immobiliari e a perdite di ricchezza quando queste bolle dovessero scoppiare (come scoppiarono), con conseguenze deleterie per il patrimonio dei privati e per i bilanci delle banche che avevano fatto i prestiti di cui sopra. Gli economisti avevano avvertito (e questa volta avevano ragione): quando una crisi è causata da un eccesso di debito, l’uscita è lenta, perché le famiglie devono ricostruire la loro situazione patrimoniale, e per farlo c’è una sola via garantita: risparmiare di più; c’è anche una via meno garantita, da ascrivere però fra le "varie ed eventuali": attendere che il patrimonio aumenti da solo, per esempio con un rialzo dei prezzi delle case, che tuttavia sarà, se mai sarà, lento a venire. Il guaio è che, per quanto la "Giornata del risparmio" sia piena di inni a questa difficile virtù, risparmiare vuol dire non spendere, e spendendo di meno, togliendo quindi carburante al motore dell’economia, la ripresa diventa una strada in salita.
Ma non ci fu solo quella fatica a segnare il sentiero dell’economia. Un’altra crisi era in agguato. Gli eccessi di spesa del settore privato erano stati (giustamente) combattuti con eccessi di spesa del settore pubblico (qualcuno deve pur spendere per evitare che i vuoti di spesa portino a una spirale di deflazione). Ecco che, come ai tempi della crisi 1.0 i mercati fuggivano impauriti da quei titoli "tossici" e "paratossici" emessi da istituzioni private, con la crisi 2.0 i mercati prendono paura dei titoli emessi da Paesi con grossi deficit. E allo stesso tempo si levano incolte paure di inflazione legate alla grande quantità di moneta che è stata creata dalle Banche centrali per abbassare i tassi a lungo termine e incoraggiare così investimenti e mutui.
Questo secondo tempo della crisi ha però una caratteristica tutta sua. Basti pensare che Stati Uniti e Inghilterra non hanno nessun problema a finanziare i deficit pubblici. Nessuno diffida dei loro titoli - T-Bond e Gilts - pur avendo i due Paesi disavanzi più grossi di quelli dell’Unione europea. La crisi 2.0 ha l’epicentro nell’Eurozona, dove i disavanzi sono diversi da Paese a Paese, dove, a differenza di Usa e Regno Unito, la moneta unica non si accompagna a un’unica gestione dei bilanci pubblici e la sua Banca centrale è statutariamente incapace di contrastare una crisi con illimitate espansioni di liquidità a favore degli Stati. Molti hanno visto in questa crisi un fatale difetto dell’euro: non si doveva creare una moneta comune senza mettere in comune anche le altre leve della politica economica, a partire da quelle dei bilanci pubblici. Ma a ben vedere la colpa è anche e soprattutto dei mercati. Non c’era nessuna ragione perché i mercati dovessero prestare soldi ai vari paesi dell’Eurozona fino a quasi annullare i differenziali con la Germania: così come, all’interno di Paesi unitari come Regno Unito o Stati Uniti i mercati differenziano fra i vari prenditori di fondi in base ai loro conti, così avrebbero dovuto differenziare i tassi guardano ai deficit interni ed esterni dei vari Paesi e alla qualità dei prestiti fatti dai vari sistemi bancari. Le agenzie di rating, che ora sono così sollecite a far piovere sul bagnato, punendo i Paesi che fanno fatica, non fischiarono allora i falli né alzarono allora le bandierine dei segnalinee.
Oggi si sta spiegando un’altra "tempesta perfetta": tutti stanno cercando di ridurre i debiti, in primis il settore pubblico nei vari Paesi. Le politiche di bilancio sono restrittive, al limite di un’austerità fine a se stessa, proprio mentre il settore privato continua anch’esso nel suo faticoso deleveraging (riduzione del debito). Intanto, anche quei Paesi emergenti che avevano attraversato quasi indenni la crisi e avevano continuato a crescere, vedono oggi un rallentamento. Un rallentamento che ha una parte fisiologica - legato cioè a politiche volte a moderare una crescita troppo accesa, come in Cina - e una parte patologica, legata cioè alle tensioni della crisi dei debiti sovrani in Europa e ai timori (infondati ma reali) su una catastrofica dissoluzione dell’euro. Allora, «smetterà mai di piovere»? Sì, Mark Twain aveva ragione: «Ha sempre smesso». Ma la pioggia, anche quando smette, porta danni e inondazioni. C’è solo da sperare che i governanti vadano a costruire argini più solidi di quelli attuali.