Riccardo Sorrentino, Il Sole 24 Ore 12/7/2012, 12 luglio 2012
QUANDO L’EUROZONA E GLI EMERGENTI VANNO IN CORTOCIRCUITO
Colpa di Eurolandia? Il mondo rallenta, i flussi commerciali sembrano frenare, l’incertezza cresce, le banche centrali si affrettano a lanciare nuove iniziative per stimolare l’economia o – più correttamente – per evitare che la recessione scateni tensioni deflazionistiche. La domanda, allora, è inevitabile: è l’effetto della crisi dell’Unione europea?
«Colpa» non è la parola adatta. Anche se il discorso pubblico, in questa fase, ha dato vita a uno strano calvinismo economico: si parla di austerità, di rigore, di Paesi virtuosi e viziosi, di compiti a casa. E così via. È vero, però, che Eurolandia "pesa". Le politiche di risanamento fiscale, così come sono state disegnate – più tasse, e non meno spese – sono sicuramente recessive, riducono i consumi; mentre la minore fiducia e la maggiore incertezza rende più difficile gli investimenti, malgrado tassi nominali a livelli bassissimi (e tassi reali, tenuto conto dell’inflazione, addirittura negativi).
Quanto incida la crisi dell’Unione è in realtà un po’ difficile da calcolare. Non impossibile, però: Bruce Kasman, David Hensley e Joseph Lupton di JPMorgan hanno stimato che in media la flessione di un punto percentuale del Prodotto interno lordo di Eurolandia si traduce in un calo di 0,4 punti del pil del resto del mondo. "Media" è la parola chiave, qui: negli anni 90, spiegano, l’impatto era minimo, nel primo decennio del 2000 era invece di 0,7 punti. Con forti variazioni da Paese a Paese. Gli Stati Uniti sono stati, in quest’ultimo periodo, quasi immuni (-0,26 punti l’effetto di una frenata dell’1%, dopo quattro mesi); fortissimo invece l’impatto sulla Russia (-1,79 punti) e sull’America Latina (0,94, con uno 0,97 un Brasile e un 1,27 in Messico), forte quello su Turchia (-0,94), Gran Bretagna (0,76) e Giappone (0,72); medio sulla Cina (-0,46 punti).
Il canale di trasmissione è, soprattutto, quello commerciale, che non va però sopravvalutato: un calo del pil di Eurolandia di un punto percentuale si traduce in una flessione – questa volta più stabile nel tempo, e quindi più prevedibile – di 2,8 punti nella crescita delle importazioni dal resto del mondo.
Alcuni Paesi sembrano piuttosto vulnerabili – quelli dell’Europa orientale, più la Svizzera e il Vietnam–mentrelaCinadestina all’Unione, secondo dati dell’Hsbc, esportazioni pari al 3,7% del Pil, il Brasile all’1,8%, gli Stati Uniti all’1,3 per cento. Eurolandia è infatti relativamente "chiusa": i suoi acquisti dall’estero rappresentano solo il 4,5% del pil del resto del mondo (anche se le interrelazioni sono molto strette). Questo significa, aggiungono gli analisti di JPMorgan, che occorrerebbe una maxi-flessione delle importazioni del 10% – davvero tanto – per ridurre il pil mondiale di 0,5 punti percentuali.
Il commercio internazionale non spiega tutto, allora. Sono proprio le tensioni finanziarie a generare le ricadute più insidiose e meno prevedibili, soprattutto in questa fase: «I prezzi delle azioni mondiali si muovono in sincronia con quelle di Eurolandia, e così gli spread sul credito», spiegano gli analisti di JPMorgan, secondo i quali la flessione delle borse europee iniziata a metà marzo, se continuasse per un anno intero, ridurrebbe la crescita del pil del resto del mondo di circa 0,25 punti percentuali. Non c’è solo questo, però. Le banche dell’Unione vantano crediti con il resto del mondo per 5.300 miliardi di euro, più del doppio dei 2.300 miliardi detenuti dalle aziende di credito degli Stati Uniti. Questi prestiti potrebbero essere ridotti a causa del deleveraging delle banche, che riducono attivi e passivi per risanare i bilanci: la Hsbc già ricorda la recente flessione registrata nei prestiti all’America Latina e la "stasi" nell’Europa orientale, dopo un periodo ben più vivace. La lista dei Paesi in astratto più esposti ripropone infatti i Paesi dell’Europa dell’Est e alcune economie dell’area mediterranea (la Turchia, l’Egitto) e sudamericana (l’Argentina e il Brasile) oltre a Russia e Gran Bretagna.
L’effetto complessivo è comunque piccolo, e anche per questo di «colpa» non si può parlare. O forse sì... Qualche responsabile in realtà c’è: i politici di Eurolandia. Hanno scelto le riforme più facili, da dare subito in pasto ai mercati, ma anche quelle che più riducono l’attività economica, secondo Karen Ward e Madhur Jha di Hsbc: sono state aumentate le imposte indirette, quelle che frenano di più l’economia – una volta e mezza l’effetto delle imposte dirette e di quelle sulle imprese – e sono state tagliate le spese per investimenti: «È la peggiore combinazione, nel risanamento fiscale, in termini di ricaduta complessiva sul Pil», spiegano.
Il mondo ringrazia (ed Eurolandia pure...) Anche in questo caso, però, è bene non esagerare. Dai numeri a disposizione – e con la consueta incertezza nelle possibili deduzioni – emerge che l’Unione monetaria, e la frettolosità dei suoi politici, non spiegano tutto. Qualcos’altro è in movimento. L’avvicinarsi del fiscal cliff americano, la possibilità che alla fine dell’anno scattino automaticamente – in assenza di un accordo politico, non facile in un anno elettorale – tagli delle spese e aumenti delle tasse sta creando incertezza nelle aspettative e sta rallentando l’economia Usa indipendentemente dalle vicende europee. Le difficoltà economiche dovrebbero creare un clima di urgenza – spiega la Oxford economics in una sua ricerca – ma per ora le proposte dei due partiti puntano a una proroga solo simbolica delle deroghe fiscali introdotte da Bush (e destinate a essere abrogate). Poca roba. I Paesi emergenti stanno intanto facendo i conti con gli effetti, in normale ritardo, delle politiche monetarie restrittive varate qualche mese fa, che oggi si manifestano con una frenata negli investimenti: sono calati del 2% annuo in Brasile e sono rallentati al +3,6% in India, dal +11,6% del 2010; mentre il contributo alla crescita cinese delle spese in beni capitali – spiega Julian Callow di Barclays – è sceso a 2,7 punti percentuali nel primo trimestre del 2012, dai 5 punti del 2011 e i 5,6 punti del 2010. «Sono fonti distinte di rallentamento che interagiscono una con l’altra», dicono gli analisti di JPMorgan.
Per fortuna non mancano i "cuscini" per attutire gli urti. La flessione dei prezzi del petrolio, che potrebbe continuare a causa dell’aumento degli investimenti e quindi dell’offerta – come ha spiegato Leonardo Maugeri dell’Università di Harvard in un seminario a Milano organizzato dalla The Ruling Companies Associations – dà un po’ di sollievo a tutte le economie che importano energia. La politica monetaria, inoltre, è già da un po’ - e di nuovo – in fase espansiva. Non potrà fare moltissimo, in alcuni casi, e soprattutto nei Paesi sviluppati; ma sicuramente le banche centrali dei Paesi emergenti stanno migliorando le condizioni finanziarie che si erano "ristrette", per esempio in Brasile o in Cina; mentre Russia e Turchia hanno ancora spazio per allentare ancora, e così l’India.
Non va poi dimenticato il lento riequilibrio cinese. L’aumento della domanda domestica potrebbe non essere sufficiente a risollevare le sorti del mondo, ma c’è: negli ultimi anni i salari reali sono aumentati piuttosto rapidamente, e così le importazioni mentre quest’anno solo le spese per il welfare state
– senza contare altri interventi pubblici – dovrebbero aumentare, ricordano Ward e Jha, del 16 per cento. Questa volta, allora, la Cina potrà dare una mano.