Giuseppe De Bellis, Panorama n. 30 18/7/2012, 18 luglio 2012
SONO UNA BABY E IL MILLION DOLLAR VOGLIO GUADAGNARLO PRENDENDO TUTTI A PUGNI ALLE OLIMPIADI
Claressa Shields prende a pugni l’ultimo pezzo di maschilismo: destrosinistro. È il volto, le mani e la forza della boxe femminile che arriva alle Olimpiadi per la prima volta. Londra 2012 sdogana i cazzotti tra donne. Prima medaglia e un posto nella storia. Claressa è la più giovane boxeur di sempre, con i suoi 17 anni appena compiuti. Boxa per quello che è e per quello che vuole essere: il simbolo di un’altra conquista femminile, l’emblema di un’altra barriera abbattuta. Ai Giochi c’era già la lotta femminile, il judo femminile, ma non la boxe. Perché? Nessuno risponde. Londra chiude la stagione del ring che discrimina Claressa e le altre. Però lei, adesso, soprattutto lei, con quella faccia un po’ triste che hanno quasi tutti i protagonisti di questo sport, che cosa pensa? Che cosa dice? Che cosa fa? Non ha mai parlato con un giornalista. Una volta una troupe s’è presentata alla fine degli allenamenti, fuori dalla palestra: lei ha messo il cappuccio della tuta sopra la testa ed è sgusciata via, verso gli amici, verso la vita, verso la normalità di un’adolescente.
Claressa è l’America che non ha mai smesso di infilarsi i guantoni, sebbene questo sport sia in crisi profonda. Gli Stati Uniti moderni si sono costruiti sulle automobili e sui ring. Shields riassume tutto: viene da Flint, Michigan, che prima d’essere la città di Michael Moore è il luogo di nascita della General Motors. Viene da lì e combatte. Si porta appresso un’esistenza da provincia annoiata. Un riscatto che non è sociale, ma familiare. Succede spesso a chi fa pugilato: due genitori che non funzionano, qualcosa che non torna, la voglia di sfogare il proprio disagio. Shields non vive né con la madre né con il padre, è affidata a uno zio che non ha nemmeno trent’anni, due figli e una vita complicata. Lui lavora di notte in una azienda che produce serrature per automobili. Claressa segue i cugini quando lo zio non c’è. Casa e palestra, allora: la vita chiusa in sei isolati. «Six blocks for Ress» dicono gli amici che la vedono già protagonista di un reality, di un documentario, di uno show.
Una medaglia per cambiare la propria esistenza. Quella di Ress, perché il diminutivo neutro agevola la semplificazione di una storia complicata. Qui c’è tutto: una ragazza che cresce in un ambiente poco usuale e che sceglie uno sport poco usuale. Le Olimpiadi arrivano per cambiare la vita. Per raccontare al pianeta che c’è qualcosa oltre un casco che stringe le tempie, le guance, il mento. Uomo o donna? Sul ring sembra non ci sia differenza. La prima volta che il suo allenatore, Jason Crutchfield, incontrò Claressa, le diede i guantoni e le chiese di fare una prova. Destro-sinistro. Poi le parlò: «Man… tu vieni con me». Uomo, già: si sovrappongono le identità, si accavallano i generi, si mescola tutto. È sbagliato, ma più facile. Perché la boxe ha un codice ancora rigorosamente maschile. «Il pugilato femminile è un abominio» ha detto Tommy Gallagher al New Yorker di qualche settimana fa. Lui è stato l’allenatore di Roberto Duran e di Mike Tyson. Lui non prenderebbe mai una donna nella sua Gleason’s Gym di Brooklyn.
Ce ne sono molti così. Quasi tutti. La storia del pugilato femminile è quella di uno sport carbonaro. La prima traccia storica risale al 1722, eppure dopo tre secoli non ha ancora una vera cittadinanza. Gli Stati Uniti videro il primo combattimento della loro storia nel 1876, a New York: la vincitrice ottenne come premio un piatto d’argento. Sul ring accanto fu premiato il vincitore del torneo maschile. Prese soldi. È così che funziona. Differenze, distinzioni, sessismo, maschilismo. La boxe femminile c’era, ma nessuno le dava dignità. Alle Olimpiadi del 1904, a St. Louis, ci furono combattimenti sia tra uomini sia tra donne. Però per i primi in palio c’erano medaglie, per le seconde no. E da allora in poi le signore non furono più neanche ammesse ai Giochi. Una tradizione che per molto tempo neanche le donne hanno avuto voglia di sfidare.
Persino la scrittrice Joyce Carol Oates ha rivendicato il machismo esclusivo del pugilato. Lei ama i guantoni, ne riconosce il valore epico, la capacità di costruzione dell’identità attraverso i pugni, ma esclude le donne da questo mondo. Nel suo saggio On Boxing del 1987 scrive: «Il pugilato è per uomini, ruota attorno agli uomini. Il pugilato è uomo».
Claressa Shields e le altre donne che saliranno sul ring di Londra prendono a cazzotti anche lei. Con violenza, con grazia. Si può. È la forza dell’universo femminile che arriva attraverso Ressa oppure attraverso Mary Kom, la pugilessa indiana che va alle Olimpiadi per vincere contro tutte: è due volte campione del mondo di pugilato femminile, è moglie, è madre di due bimbi. Donna, donna, donna: tre volte per ripetere al suo paese che c’è spazio anche per lei. L’India ha vinto una sola medaglia d’oro olimpica nella sua storia. L’ha presa un uomo, ovvio. Ora Mary è l’unica speranza per il suo paese di ottenere un successo.
Sarà uno spettacolo, Londra. Sarà un pez- zo di storia vissuta in diretta. Claressa viene da un paese dove non esistono discriminazioni femminili come quelle che subisce Mary. Però combatte per lo stesso motivo: vincere e dimostrare di essere degna del proprio sport. Ci sarà Jason Crutchfield con lei. Minuto per minuto, secondo per secondo, all’angolo del ring, come nella cabina di regia della vita. Questa è una storia che sembra quella di Million dollar baby. Anche qui l’allenatore era scettico, anche qui il pregiudizio è stato battuto dall’umanità. Fu quel giorno in cui lui chiamò lei «uomo» e si convinse che allenarla era la cosa giusta da fare.
L’esistenza di Shields è stata piena di ostacoli. Siete mai stati a Flint, oggi? È il deserto dell’anima. È una carcassa d’auto lasciata ai bordi di una strada: è vuota, è sporca, è povera. Molti, in America, dicono che sia il vero simbolo della crisi, più di Detroit, con la quale condivide la precarietà del suo presente. Ressa è cresciuta qui, senza vedere l’era vincente della sua città. È cresciuta con una madre che non ha mai lavorato. È cresciuta con un padre che ha lasciato entrambe molto tempo fa e poi ha provato a riallacciare i rapporti con la figlia. È cresciuta con una nonna che le ha voluto un gran bene, ma che nel 2010 è morta. Ha trovato la forza di dire al suo allenatore una verità che molti ragazzi neanche riescono ad ammettere: «Senza mia nonna, dormivo tutto il giorno. Ho bisogno di regole, la boxe mi serve». Oggi si allena 3-4 ore al giorno. Ogni giorno. Estate e inverno, caldo o freddo. Gli amici a scuola e subito dopo la palestra. Poi casa. Con Jason, l’allenatore, che fa da controllore e dice orgoglioso che la vita sociale di Ressa è «il suo telefono». A londra è arrivata prendendo a pugni le avversarie in un torneo di qualificazione organizzato in Cina a maggio. C’erano americane, ucraine, cinesi, russe, brasiliane. Lei ha perso il primo incontro, poi ha vinto gli altri. Ha un biglietto in mano, la divisa della nazionale olimpica nell’armadio. Avrà una diaria di qualche centinaio di dollari al giorno. È la stessa cifra che prendono gli uomini.
Non è un dettaglio, questo. Non è un dettaglio il resto: Jason sarà con lei alle Olimpiadi e non la chiamerà più «uomo». L’ha deciso il giorno in cui s’è qualificata. L’ha aspettata sotto il ring, alla fine dell’ultimo match. L’ha abbracciata: «Grande, donna», le ha detto.
Giuseppe De Bellis