Felice Cavallaro, Corriere della Sera 11/07/2012, 11 luglio 2012
GLI AMANTI IN CELLA CHE SI ACCUSANO DEL DELITTO DI TRAPANI —
Adesso si accusano a vicenda di avere ucciso a colpi di piccozza quella povera donna incinta al nono mese cospargendola di benzina per farne una torcia umana ed essere certi che fosse proprio morta con la sua creatura in grembo. Ecco la prodezza dei due diabolici amanti di Trapani che hanno premeditato il crimine acquistando l’arnese qualche giorno prima e procurandosi in tempo una tanica di dieci litri. Dettagli chiave nell’inchiesta che ha avuto una svolta l’altra notte, da quando dalle rispettive celle questi due personaggi di un giallo subito scoperto si lanciano strali e ognuno di loro si autoproclama spettatore impotente dell’orrore.
Da una parte, Salvatore Savalli, 39 anni, operaio in una segheria di marmi, un omone ormai da anni in lite con la moglie Maria Anastasi, casalinga sua coetanea, madre di un maschietto di 14 anni e di due ragazze di 17 e 15 anni. Dall’altra, Giovanna Purpura, stessa età della coppia, infatuatasi dell’aitante operaio che in un primo tempo l’aveva spesso invitata a cena come una semplice amica e poi aveva preteso dalla moglie di ospitarla in casa, nonostante la ritrosia dei figli che avevano continuato ad additarla come «quella lì».
Una convivenza ambigua e impossibile, con la povera Anastasi che avrebbe subito a lungo l’umiliazione di dovere perfino cucinare la sera per gli amanti sotto minaccia di botte e ritorsioni economiche. Pronta a soffrire e sopportare per proteggere il bimbo che sarebbe nato e i ragazzi nelle ultime settimane di scuola. Ma, proprio dopo la chiusura delle scuole, lei è esplosa, decisa a liberarsi di quella figura odiata dai figli. Ha imposto che la storia doveva finire lì. E si è arrivati al giorno del chiarimento. Quando lui, Savalli, le ha fatte salire in macchina perché potessero parlare, sfogarsi, accordarsi.
Di certo c’è solo che questa passeggiata si è trasformata nel calvario di Maria Anastasi, col suo pancione seduta accanto al posto guida, agitata e decisa a rivendicare il diritto a liberarsi dell’intrusa, come avrebbe ripetuto fino alla strada sterrata di contrada Zafarana, direzione Erice, fra alberelli rinsecchiti e sterpi bruciate dal sole. Qui, stando alle sue prime ammissioni, Savalli avrebbe arrestato l’auto, spinto da un urgente bisogno fisiologico.
L’uomo ha cambiato versione più volte. Intanto, la prima denuncia è di «scomparsa». Così disse ai carabinieri la scorsa settimana raccontando di essere uscito da solo con la moglie, di essersi fermato sempre per fare pipì e di non averla più ritrovata in auto. Non una parola sull’amante, invece subito indicata ai militari dalle due figlie più grandi, decise ad accusare «quella lì» e il padre: «Ci ha detto di non parlare, di non dire niente mentre sappiamo che è uscito con tutte e due in macchina...».
La smentita e le successive contraddizioni hanno smontato il castello di bugie facendo scattare le manette ai polsi di Savalli, accusato di avere infierito a picconate e di avere bruciato il corpo della moglie. Chiuso in un assoluto mutismo, quando l’amante ha detto di averlo visto colpire otto, dieci volte, nell’impossibilità di muovere un dito, nemmeno davanti all’epilogo delle fiamme, forse appiccate su una donna ancora cosciente, come sta cercando di appurare il medico legale Livio Milone, arrivato dal Policlinico di Palermo.
Il mutismo s’è sciolto però l’altra notte nelle accuse lanciate contro l’amante, accusata di tutto: «Quando, dopo i miei bisogni, sono tornato davanti all’auto ho visto che dal baule Giovanna aveva preso la piccozza colpendo mia moglie... Poi, la tanica, e non sono riuscito a fermarla...».
Un racconto che non convince affatto il procuratore Marcello Viola e i suoi sostituti Andrea Tarondo e Sara Morri, decisi a incriminare entrambi di «concorso in omicidio premeditato con l’aggravante della crudeltà». Passo obbligato, mentre il medico legale studia su un reperto di polmone se l’aria respirata negli ultimi istanti era affumicata. Sarebbe la prova dell’orrore più grande, di aver fatto morire quella madre incinta arsa viva.
Felice Cavallaro