Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 10/7/2012, 10 luglio 2012
LEI NON SA CHI ERO IO
Ogni giorno che passa, da quando s’è scoperto che il presidente Napolitano e il consigliere D’Ambrosio si erano messi in testa di dirigere le indagini sulla trattativa al posto della Procura di Palermo, si spalanca una nuova frontiera del diritto. Galli della Loggia s’intenerisce perché Mancino, nelle telefonate al Colle, era “per nulla tranquillo”, anzi in preda alla “paura di essere incastrato” dal lupo cattivo: ergo vanno riformati “i meccanismi dell’Accusa” e “il modo di essere dei suoi rappresentanti” per restituire a tutti i Mancini un po’ di serenità. Sempre sul Corriere, il prof. Onida spiega che, siccome 20 anni fa Conso e Mancino erano ministri, la Procura “deve trasmettere gli atti entro 15 giorni, ‘omessa ogni indagine’, al tribunale dei ministri” per “l’archiviazione o l’autorizzazione a procedere della Camera competente”. E pazienza se i due sono indagati per aver mentito sotto giuramento nel 2011-2012, da pensionati: come il diamante, anche il ministro è per sempre. Il famoso principio costituzionale del “lei non sa chi ero io”. Ora Eugenio Scalfari bacchetta il Fatto per aver invitato Napolitano a render pubbliche le sue telefonate con Mancino intercettate sull’utenza di quest’ultimo; e accusa la Procura di Palermo di delitti gravissimi, subito segnalati al Pg della Cassazione perché li punisca con “eventuali procedimenti disciplinari”. Questi: “Quando Mancino... chiese al centralino del Quirinale di metterlo in comunicazione col Presidente, gli intercettatori avrebbero dovuto interrompere immediatamente il contatto. Non lo fecero” e fu “un gravissimo illecito... ancor più grave quando il nastro fu consegnato ai sostituti procuratori i quali lo lessero, poi dichiararono che la conversazione risultava irrilevante ai fini processuali, ma anziché distruggerlo lo conservarono in cassaforte”. Una “grave infrazione compiuta dalla procura la quale deve sapere che il Capo dello Stato non può essere né indagato né intercettato né soggetto a perquisizione... Si tratta di norme elementari della Costituzione e trovo stupefacente che né i procuratori interessati, né i giudici, né i magistrati preposti al rispetto della legge, né gli opinionisti esperti in diritto costituzionale abbiano detto una sola sillaba”. Purtroppo, almeno finora, le ricerche delle “norme elementari della Costituzione” che impongono all’intercettatore di fermare le macchine appena l’intercettato chiama il Quirinale, si sono rivelate vane. L’ha spiegato a Scalfari uno stupefatto procuratore Messineo. Quando il pm chiede e il gip dispone di intercettare un telefono, non sa chi chiamerà o da chi verrà chiamato. E l’“intercettatore” esiste solo nella “Concessione del telefono” di Camilleri: oggi c’è un’apparecchiatura leggermente più avanzata, che registra in automatico l’intero traffico su una linea telefonica per tutta la durata del decreto (un mese e mezzo). Per legge, nessuno – né l’agente, né il pm – può distruggere alcunché prima che lo dica il gip, a fine indagine, dopo aver messo a disposizione delle parti interessate tutto il materiale, penalmente rivelante o irrilevante. Questo per evitare che venga distrutta una telefonata utile al pm o alla difesa. D’Ambrosio ha già chiesto a Palermo le trascrizioni delle sue telefonate con Mancino. E lo stesso può fare, volendo, Napolitano. Va però riconosciuto che anche il Codice Scalfaritano ha il suo fascino: si infila un omino piccolo piccolo armato di registratore nel telefono da intercettare e lo si allena a riconoscere la voce del Presidentissimo, oltreché a vegliare giorno e notte senza mai addormentarsi; così, appena si appalesa la Vox Dei, zac! L’omino scatta sull’attenti, sventola il tricolore, intona l’inno di Mameli, intanto spegne o distrugge l’aggeggio con agile mossa e si strappa le orecchie per non sentire; se non è abbastanza lesto e gli capita di auscultare qualcosa, si mangia il nastro e, per non lasciare testimoni, s’inabissa nel triangolo delle Bermude.