Paolo Valentino, Corriere della Sera 11/7/2012, 11 luglio 2012
DAL NOSTRO INVIATO
NEW YORK – Giocare a scacchi, per lui, era come andare in guerra. «L’obiettivo è spezzare la mente degli avversari, voglio vederli contorcersi», diceva. Era un approccio alla scacchiera senza possibilità di compromessi, quasi sadico. Il prodotto di una mente esplosiva, quoziente intellettuale da «super genio» ed equilibrio eternamente precario. Sicuramente fu la formula del successo, quella che permise a Bobby Fischer di conquistare un mondo fino lì invariabilmente dominato dai maestri sovietici.
Ora che sono passati quarant’anni, la prima cosa che viene in mente è la pipa di Magritte. Quella tra l’americano Fischer e il russo campione in carica, Boris Spassky, non fu una partita di scacchi. Accadde nell’estate del 1972 a Reykjavik, luogo topico di tutte le metafore neutraliste dell’epoca, a metà strada tra Mosca e Washington. Accadde al culmine della Guerra Fredda, quando la rivalità tra Usa e Urss era l’unico prisma attraverso il quale venivano lette le vicende del mondo.
Bobby Fischer non fu un patriota. Mai veramente connesso con la realtà, l’unica ossessione della sua vita erano regine, cavalli e alfieri. Maestro a 12 anni, campione degli Stati Uniti a 13, aveva abbandonato la scuola sedicenne facendo degli scacchi il suo lavoro. «Poco equilibrato, irascibile e capriccioso», come lo avrebbe definito Garry Kasparov, il giovane americano era però stato sin dagli esordi critico acerrimo e loquace del monopolio sovietico sul sistema scacchistico mondiale. Era convinto, non senza ragioni, che i maestri moscoviti si accordassero segretamente nei tornei internazionali, accettando patte dopo brevi partite fra di loro, per poi concentrarsi in lunghi match, che sfibravano avversari esterni come lui. Tanto fondate erano state le critiche di Fischer, che la Federazione Mondiale aveva cambiato le regole dei tornei, introducendo l’eliminazione diretta.
Come e più di ogni altra disciplina sportiva o artistica, gli scacchi erano al centro della macchina propagandistica del Cremlino. Il dominio nel gioco più difficile del mondo doveva essere un’altra prova della superiorità del sistema comunista sul capitalismo. Da sempre passione nazionale, erano parte del sistema politico. Gli scacchi erano la vita. Il campionato mondiale del 1972 non fece eccezione. Nulla fu lasciato al caso. Per la difesa del titolo, Boris Spassky sostenne una preparazione speciale di mesi: prima nel Caucaso, poi in un appartamento di Mosca che riproduceva esattamente la sala islandese.
Conquistato il diritto a sfidare il campione e deciso a provare di essere «il migliore scacchista del mondo», Fischer fece di tutto per irretire l’avversario. Ritardò il suo arrivo a Reykjavik, chiese di alzare il valore dei premi. Neppure una telefonata di Henry Kissinger riuscì a convincerlo: «Devi battere i russi, vogliamo che tu combatta per l’America», gli disse il consigliere di Nixon. Più prosaicamente a farlo salire su un aereo per Reykjavik, fu l’impegno di uno sponsor inglese, che portò il primo premio a 250 mila dollari. Le bizzarrie continuarono in Islanda. Fischer aveva obiezioni su tutto: le luci, l’aria condizionata, la grandezza del tavolo, perfino la scacchiera. Si rifiutò di prendere parte alla cerimonia d’apertura. Alla fine, minacciato di squalifica, fu costretto a scrivere una lettera di scuse a Spassky.
L’esordio fu un disastro per l’americano. Perse la prima partita, da una posizione in cui avrebbe potuto facilmente accettare un pareggio. Non si presentò alla seconda, per protesta contro le troupe televisive. Minacciò di disertare anche la terza, se la partita non avesse avuto luogo in una saletta attigua, invece che nel grande auditorium. Le autorità sovietiche fecero pressione su Spassky perché si rifiutasse, facendo così squalificare Fischer. Ma quello, con gesto molto sportivo che gli valse l’eterna stima dell’avversario, accettò. Fu la svolta.
Il resto è storia. Fischer vinse la terza partita, manovrando gli alfieri ai lati della scacchiera e sconvolgendo l’ortodossia di Spassky. Poi, dopo due pareggi, venne la sesta partita, considerata il suo capolavoro. Scegliendo un’apertura convenzionale, mai usata nella sua vita, l’americano colse di sorpresa l’avversario, dimostrando l’inutilità di tutta la strategia preparatoria e destabilizzandolo sul piano psicologico. Al termine, Spassky si unì al pubblico e lo applaudì.
Andò avanti fino ai primi di settembre. Spassky apparve sempre più rassegnato al suo destino. Alla ventunesima partita, il russo si ritirò chiamando i giudici al telefono. Stavano 12,5 a 8,5. Bobby Fischer era campione del mondo. L’intero match era stato seguito in tutto il mondo per televisione da milioni di persone. I media degli Stati Uniti celebrarono l’evento come una grande vittoria dell’individualismo americano contro il collettivismo sovietico. Gli Usa si riscoprirono nazione di scacchisti.
Durò fino al 1975, quando Fischer non volle difendere il titolo, di fronte al rifiuto della Federazione mondiale di accettare, dopo aver detto di sì a tutte le altre, una delle 64 condizioni che aveva posto per farlo. Venne privato della corona.
Cosa successe dopo è storia triste. Le turbe emotive finirono per avere il sopravvento sul genio. Passò il resto della sua vita, sprofondando in un buco nero di paranoia, megalomania, aberrazioni anti-semite e lodi ai terroristi dell’11 settembre. Fischer morì nel 2008, a 64 anni, a Reykjavik, il posto del destino dove nell’estate del 1972 aveva toccato l’immaginazione del mondo.
Paolo Valentino