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 2012  luglio 10 Martedì calendario

Da anni siamo avvezzi a definire le guerre in cui ci troviamo impegnati (Balcani, Iraq, Afghanistan, Libia) come missioni «umanitarie» o «di pace»

Da anni siamo avvezzi a definire le guerre in cui ci troviamo impegnati (Balcani, Iraq, Afghanistan, Libia) come missioni «umanitarie» o «di pace». In tempi recenti la tendenza al ricorso a questo genere di eufemismo si è fatta più corposa. In un interessante libro sulla «saga del politicamente corretto» dal titolo La cultura del piagnisteo (Adelphi), Robert Hughes ha scritto: «Come il gergo degli affari ci ha regalato "ripiegamento del capitale azionario" per il crollo in borsa del 1987 e "ottimizzazione delle dimensioni aziendali" per i licenziamenti in massa, così la Guerra del Golfo (1991) ci ha insegnato che spianare un posto con le bombe è "occuparsi di un bersaglio" e bombardarlo una seconda volta per assicurarsi che non sia sopravvissuto neanche un serpente o un rovo è "perlustrare nuovamente una località"». Vale per ogni tipo di guerra soprattutto quando sono i «nostri» a combatterla. Benjamin Stora, autore del bel libro La guerra d’Algeria (il Mulino), ha elencato le «denominazioni rassicuranti» usate nel discorso pubblico in Francia per il conflitto di cui al titolo del volume. Dopo l’avvio delle azioni armate del Fronte di liberazione nazionale nel novembre 1954, per una lunga stagione gli atti di guerra furono soltanto «avvenimenti». Furono poi «operazioni di polizia», fino alla sollevazione contadina del 20 agosto 1955 nella regione di Costantina. «Azioni di mantenimento dell’ordine», dopo il voto dei poteri speciali (marzo 1956) e l’invio dell’intero contingente in Algeria. «Operazioni per il ristabilimento della pace civile», durante la terribile battaglia d’Algeri, nel corso del 1957. «Opere di pacificazione», negli anni che condussero nel 1962 all’indipendenza algerina. Anche nei cinegiornali mai si parlava di guerra, tutt’al più di «dramma algerino». Chi obiettava a quel conflitto, chiamò fin dall’inizio le cose con il loro nome. Su «Le Monde» di guerra si scrisse già nell’agosto del 1955. E, nel novembre dello stesso anno, un numero speciale della rivista «Esprit» fu titolato, senza infingimenti, «Fermiamo la guerra d’Algeria». L’editoriale si apriva con queste parole: «Qualche mese di intervallo ed eccoci di nuovo in un paesaggio familiare, la guerra d’Algeria succede alla guerra d’Indocina». Dopodiché i grandi giornalisti, da Jules Roy a Jean-Jacques Servan-Schreiber, avevano sempre usato quel termine. E persino il generale Charles De Gaulle, tornato al potere nel 1958, in una conferenza stampa dell’11 aprile del 1961 si era arreso all’evidenza: «È un fatto che l’Algeria, per il momento, è un Paese dove imperversa la guerra». Badando però a marcare bene le parole «per il momento». Secondo Alistair Horne, autore di La guerra d’Algeria (Rizzoli), questo accadeva perché in quello scontro era ideologicamente impegnata tutta la Francia. Non solo la destra che prese su di sé la responsabilità di voler conservare l’Algeria alla Francia, ma anche la sinistra allora al governo dapprima, tra il 1954 e il 1955, con Pierre Mendès-France e poi, tra il 1956 e il 1957, con Guy Mollet. In un contesto di forte coinvolgimento dei comunisti. Nel novembre del ’54, sottolinea Horne, il Pcf aveva sostenuto Mendès-France e offerto una tiepida «solidarietà» al popolo algerino, ma aveva soprattutto condannato gli «atti individuali», cioè le prime azioni di terrorismo e di resistenza, suscettibili, a suo dire, di «fare il gioco dei peggiori colonialisti». E quando Mollet nel 1956 aveva chiesto i poteri straordinari per poter spedire in Algeria anche i soldati di leva, il Pcf sostenne il governo dichiarando ancora, «con parole che», dice Horne, «avrebbe potuto pronunciare qualsiasi politico francese dell’epoca»: «Noi siamo per l’esistenza e per la permanenza di legami politici, economici e culturali tra Francia e Algeria… In Algeria va ristabilita la pace». A questo punto in Algeria, alcuni membri del Partito comunista algerino, ribellandosi alle prese di posizione dei compagni francesi, avevano avanzato all’Fln «caute profferte di collaborazione» ma se le erano viste respingere con la motivazione che il Fronte di liberazione nazionale era sì disposto ad accogliere nei propri ranghi membri del Pca «ma solo a titolo individuale», di modo che ognuno di loro prendesse esplicito impegno a obbedire alle gerarchie del Fln stesso. Nel luglio del 1955 il Pca decise di partecipare alla «rivoluzione algerina» con «la propria organizzazione» e «si arrivò a un punto morto». Finché in settembre il governatorato di Algeri ne decretò lo scioglimento. Nell’aprile del ’56 un ventottenne pied-noir (un francese d’Algeria) comunista, Henri Maillot, sequestrò un carico d’armi, si diede alla macchia e fondò un gruppo di «maquis rouge» (partigiani rossi) autonominatosi «Combattants de la Libération» che però furono rapidamente individuati e debellati. In seguito a ciò i comunisti d’Algeria passarono agli ordini del Fln (che assegnò loro prevalentemente missioni suicide), il segretario generale del Pca, Bachir Hadj Ali, si ritirò in esilio a Mosca e il Partito comunista francese, liberato dall’ingombrante presenza del partito fratello d’Algeria, tornò ad assecondare i propri iscritti assai ostili agli insorti d’oltremare. Non va dimenticato poi che, ai tempi dell’inizio del conflitto algerino, ministro dell’Interno e successivamente Guardasigilli in Francia era François Mitterrand, il quale successivamente, nella Quinta Repubblica, sarebbe stato leader dell’intera sinistra francese e avrebbe concluso, negli anni Ottanta, la carriera politica all’Eliseo. Fu così che ci vollero oltre quarant’anni perché il 1° giugno del 1999 (qualche tempo dopo la scomparsa di Mitterrand) quel conflitto fosse ufficialmente riconosciuto dall’Assemblea nazionale per quel che era stato: una guerra, appunto. Di questo lungo percorso si occupa un interessantissimo libro di Andrea Brazzoduro, Soldati senza causa — Memorie della guerra d’Algeria, appena pubblicato dall’editore Laterza. Tra l’altro, Brazzoduro mette in rilievo che anche nel 1999 non si riuscì a trovare una data adatta per la commemorazione dal momento che il giorno proposto, il 19 marzo, quello del cessate il fuoco, era ancora per alcuni il momento della «liberazione», per altri quello del «tradimento» e dell’«abbandono». E, nel dibattito, se ci fu un deputato, Christiane Taubira, che mise l’accento sulle dimensioni coloniali del conflitto provate dalla circostanza che le vittime algerine furono dieci volte superiori a quelle francesi, ce ne fu un altro, Didier Quentin, che ripropose il tema dei benefici ricevuti dal Paese arabo («anche se i tempi spingono a volte alla contrizione e al pentimento, la Francia globalmente non deve rimproverarsi quanto ha fatto in Algeria, durante centotrentadue anni nel corso dei quali non sono mancati numerosi aspetti positivi»). A dire il vero, dopo la morte di Mitterrand (1996) il suo successore, Jacques Chirac, il 18 settembre del 1996 in un incontro con quello che Brazzoduro definisce l’«agguerrito Fronte unito delle associazioni degli ex combattenti» aveva auspicato un’iniziativa volta a «conformare il linguaggio ufficiale al linguaggio corrente». Due mesi dopo, però, spaventato dalle (per lui) sgradevoli ripercussioni di quel gesto, aveva ritenuto di rivolgersi ai suoi elettori in termini ancora una volta assai tradizionali: «Non possiamo dimenticare che questi soldati furono anche dei pionieri, dei costruttori, degli amministratori di talento che misero il loro coraggio, le loro capacità e il loro cuore per costruire strade e villaggi, per aprire scuole, dispensari, ospedali, per far produrre alla terra quel che aveva di meglio; in una parola, per lottare contro la malattia, la fame, la miseria, la violenza, per introdurre il progresso, per favorire l’accesso di questi popoli a più alti destini. Pacificazione, valorizzazione della terra, diffusione dell’insegnamento, fondazione di una medicina moderna, creazione di istituzioni amministrative e giuridiche, tutte tracce di un’opera incontestabile alla quale la presenza francese ha contribuito non solo in Africa del Nord, ma anche in tutti i continenti... Più di trent’anni dopo il ritorno nella metropoli di questi francesi, conviene anche ricordare l’importanza e la ricchezza dell’opera che la Francia ha compiuto laggiù e della quale è fiera». Brazzoduro scrive che c’è una storia segreta di questo ricordo «incastonata in una più vasta memoria nazionale» e che, a partire dalla fine degli anni Sessanta, ha stabilito un nesso tra l’Algeria e il passato dello Stato francese di Vichy. Cioè della Francia che, negli anni Quaranta, aveva collaborato con Adolf Hitler. Cinquant’anni dopo in Francia si assiste a un «passaggio di focalizzazione», da Vichy all’Algeria, sul quale il procedimento giudiziario ai danni dell’ex prefetto Maurice Papon «agisce come un catalizzatore». Procediamo con ordine. Già nell’ottobre del 1961, a seguito della repressione di una manifestazione di algerini a Parigi (per giorni e giorni la Senna restituì i cadaveri di persone uccise dalla polizia), in un editoriale dei «Les Temps Modernes», si poteva leggere: «Pogrom: la parola fino ad ora non si traduceva in francese. Grazie al prefetto Papon, sotto la V Repubblica, questa lacuna è colmata… Gli ebrei rinchiusi al Vélodrome d’Hiver sotto l’occupazione furono trattati dalla polizia tedesca meno selvaggiamente di quanto non siano stati trattati i lavoratori algerini dalla polizia gollista al Palais des Sports». Nello stesso numero di «Les Temps Modernes» veniva pubblicato un appello redatto da Claude Lanzmann in cui era scritto: «Tra gli algerini ammassati al Palais des Sports in attesa di essere espulsi e gli ebrei rinchiusi a Drancy, prima della deportazione, noi ci rifiutiamo di fare differenza». Quando poi, tra il 1997 e il 1998, quello stesso prefetto Papon che abbiamo appena incontrato come responsabile della caccia agli algerini a Parigi, verrà portato a processo (e condannato, secondo e ultimo in Francia per quel che riguarda le connessioni con la Shoah, dopo Paul Touvier) per aver dato, in qualità di segretario generale della prefettura di Bordeaux, un contributo assai rilevante alla deportazione degli ebrei all’epoca di Vichy, il cerchio si chiuderà. Ma perché si era dovuto attendere così a lungo, fino a dopo la morte nel 1996 del presidente della Repubblica francese François Mitterrand? Mitterrand era stato — pur senza macchiarsi di delitti — un uomo di Vichy (un libro di Pierre Péan del 1994, Une jeunesse française, pubblicato da Fayard, raccontava, sulla base di una ricca documentazione, di come avesse fatto parte negli anni Trenta del gruppo delle «croci di fuoco», avesse poi lavorato per l’amministrazione di Pétain e fosse stato addirittura insignito della «Francisque», la decorazione che premiava coloro che avevano ben meritato per servizi resi al regime filonazista). Lo stesso Mitterrand era stato — dieci, quindici anni dopo — un rappresentante di primo piano di quella Francia che aveva combattuto, spesso con metodi inumani, gli insorti algerini. Ma Papon era risultato direttamente coinvolto sia nella deportazione degli ebrei di Bordeaux tra il 1942 e il 1944, sia nella repressione degli algerini di Parigi il 17 ottobre del 1961 (fortunatamente per lui furono tralasciate le responsabilità che aveva avuto negli anni Cinquanta come prefetto di Costantina). E il processo per quel che di terribile era stato fatto con il suo contributo agli israeliti, presto si estese a ciò di cui si era reso responsabile a danno degli algerini. Nonostante il dibattimento dovesse essere dedicato per intero a ciò che era accaduto ai tempi di Vichy, in un’udienza dell’autunno 1997, lo storico e giornalista Jean-Luc Einaudi, autore di una documentata ricerca sui misfatti di quel giorno d’ottobre del 1961 in cui fu repressa la manifestazione degli algerini, fu ascoltato, su richiesta delle parti civili, come «esperto dei fatti». Quali fatti? «Trentacinque anni dopo la firma degli accordi di Évian», si sorprese il settimanale «Le Point», «la guerra d’Algeria si è invitata senza avvertire alla sbarra del processo Papon». «Ci aspettavamo Vichy e abbiamo avuto la guerra d’Algeria», ribadì «Libération». Einaudi, querelato per diffamazione da Papon, si lamentò di non aver potuto consultare le carte di polizia che riguardavano l’operato del prefetto. Il Primo ministro Lionel Jospin decise di aprire immediatamente gli archivi. La saldatura tra Vichy e l’Algeria generò un corto circuito. «A più riprese — ha scritto lo storico Henry Rousso —, ci siamo imbattuti in questa prossimità tra i due processi, il ricordo di Vichy, la cui evoluzione recente si inscrive nel quadro internazionale della memoria della Shoah, e quello della guerra d’Algeria; il paragone tra Vichy e Algeria non rientra semplicemente nel campo dell’esercizio euristico: è indispensabile per comprendere i due fenomeni». Così, prosegue Brazzoduro, sul finire degli anni Novanta, «mentre le memorie relative a Vichy si stemperano e scivolano progressivamente ai margini della scena, con movimento inverso la guerra d’Algeria si colloca al centro del dibattito pubblico e dell’attenzione dei media». Assumendo «i tratti salienti dell’ossessione». Talché oggi con l’occhio dello storico è lecito che ci si ponga una domanda: è forse la Francia guarita dalla sindrome di Vichy per cadere in quella algerina? Nella seconda metà degli anni Novanta, ha scritto Guy Pervillé, «la contraddizione tra il dovere di memoria sempre più esigente invocato in favore degli eroi e delle vittime della Seconda guerra mondiale e il dovere di oblio riservato a quelle della guerra franco-algerina diventa sempre meno sopportabile». A innescare un nuovo caso fu, il 14 giugno del 2000, la visita a Parigi del presidente algerino Abdelaziz Bouteflika che rifiutò di incontrare gli harkis, i rappresentanti delle forze ausiliarie dell’esercito francese reclutate in Algeria tra la popolazione indigena. Rifiutò con la seguente motivazione: «È come se si chiedesse a un francese della Resistenza di stringere la mano di un collaborazionista». Vivace fu la reazione degli ex combattenti. Il loro giornale, «La Voix», definì quel rifiuto «inammissibile» dal momento che prima degli accordi di Évian (1962) gli harkis erano stati a tutti gli effetti cittadini di Francia «che hanno portato l’uniforme francese e si sono battuti per la sua bandiera». L’atmosfera si surriscaldò poi ulteriormente quando «Le Monde», il 20 giugno, pubblicò in prima pagina un articolo di Florence Beaugé dal titolo: «Torturata dall’esercito francese in Algeria, Lila cerca l’uomo che l’ha salvata». Si parlava della militante algerina Louisette Ighilahriz (nome di battaglia Lila) catturata il 28 settembre del 1957 e sottoposta a tortura fino al 26 dicembre dello stesso anno. A interrogarla con metodi oltremodo brutali era stato il capitano Jean Graziani e alle percosse erano stati presenti, secondo l’accusatrice, i generali Jacques Massu e Marcel Bigeard. L’ufficiale che l’aveva salvata e che adesso lei voleva ringraziare era il medico militare Francis Richaud. Le prime reazioni furono di sdegno: il generale Bigeard negò l’accaduto e disse che si trattava di «una macchinazione per demolire tutto quanto c’è di pulito in Francia». A sorpresa, però, Massu, l’uomo che nel 1957 si era visto affidare poteri pressoché illimitati per «pacificare» la città di Algeri, si sottrasse al rito ipocrita del diniego. Pur dicendo di non ricordare l’episodio specifico, ammise: «Tutto questo faceva parte di un certo clima, a quell’epoca, ad Algeri». Poi fece di più. Dichiarò il proprio rammarico per l’episodio dove «le cose sembrano essere andate davvero troppo lontano», e anche per la pratica della tortura che «non è indispensabile in tempo di guerra». Giungendo a riconoscere: «Avremmo potuto fare tutto in un altro modo», ma «questa azione, certamente riprovevole, era coperta, cioè ordinata dalle autorità civili». La sua intervista costituì un fatto davvero eccezionale e rappresentò, secondo Brazzoduro, «la spia di una discontinuità, l’indizio di un nuovo assetto negli equilibri del lavoro della memoria, individuale e collettiva». A Lila fu comunicato che Richaud era morto nel 1997 e lei, dopo essersi detta addolorata per non averlo potuto ringraziare direttamente, aggiunse: «Il fatto che la verità venga finalmente alla luce mi libera di un grande peso; ottengo giustizia attraverso la verità, non domandavo nient’altro… È un rimedio che mi libererà dalle mie angosce». Il 16 settembre la Ighilahriz fu invitata alla festa del quotidiano comunista «l’Humanité». Dal pubblico si alzò una voce: «Proibisco, a voi comunisti, di parlare così! Siete voi che dovete essere accusati perché avete mandato il contingente in Algeria, perché avete votato i poteri speciali, perché non avete mai voluto riconoscere l’indipendenza dell’Algeria prima di esservi costretti» (il resoconto su «l’Humanité» è di Charles Silvestre che aveva organizzato l’incontro). I giornali di centro e di destra furono ancora più imbarazzati nel riferirne. Ma non finisce qui. Il 2000 continua a essere un anno di tormenti. Il 31 ottobre (anniversario dell’insurrezione algerina del ’54) «l’Humanité» pubblica un appello a Chirac e Jospin perché prendano l’iniziativa di «condannare la tortura che è stata praticata in nome della Francia». «Le Monde» si dichiara d’accordo. Fioccano anche, però, le lettere di dissenso. L’associazione degli ex combattenti si dice scandalizzata dall’«interminabile feuilleton» sulla tortura e il suo presidente Wladyslas Marek denuncia le «campagne per infangare e colpevolizzare i due milioni di uomini che hanno servito nei ranghi dell’esercito francese durante la guerra d’Algeria». Come era stato per Massu, fa scalpore l’intervento su «Le Monde» dell’ottantaduenne generale Paul Aussaresses che ammette di aver ucciso con le sue mani ventiquattro prigionieri algerini (e aggiunge: «Se fosse da rifare, mi seccherebbe, ma rifarei la stessa cosa, perché non credo si possa agire altrimenti») ma chiama in causa i responsabili dei governi dell’epoca «perfettamente al corrente delle modalità con cui l’esercito provvedeva a "pacificare l’Algeria"». A questo punto i firmatari dell’appello, spalleggiati dai parlamentari comunisti, chiedono la creazione di una commissione d’inchiesta. Jospin riconosce che la tortura in Algeria è stata praticata con l’avallo di «alcune» autorità francesi e sostiene che è sufficiente aprire gli archivi agli storici: «Nella sostanza — osserva Brazzoduro —, il Primo ministro rifiuta di riconoscere la responsabilità dell’autorità dell’epoca (e cioè, almeno fino al 1958, dei socialisti) adoperando il noto argomento secondo il quale lo Stato non deve essere chiamato in causa essendo gli atti di tortura "minoritari". Per parte sua Chirac equipara le violenze dell’esercito francese a quelle del Fln con l’argomento delle "mele marce": "è certo" che ci sono state, "e da entrambi i lati", atrocità "che non si possono che condannare, senza riserva evidentemente" ma erano "opera, naturalmente, di minoranze". Quand’ecco che viene data alle stampe una ricerca di Raphaelle Branche basata sullo spoglio dei diari di marcia dei reggimenti francesi, inchiesta che "conferma definitivamente come la tortura sia stata tutt’altro che l’opera di qualche militare isolato"». Il 5 dicembre del 2002, nel quarantennale della fine della guerra, Jacques Chirac cerca di mettere fine alle polemiche inaugurando a Parigi un Memoriale nazionale dedicato alla decolonizzazione in Algeria, Marocco e Tunisia. «Oltre al riconoscimento della guerra — scrive Brazzoduro —, l’evento sancisce il passaggio, nel linguaggio ufficiale della Repubblica, dalla centralità del monumento ai caduti, oramai decisamente fuori moda, a quella del Memoriale che poteva sembrare relativamente un’eccezione negli anni Novanta: in questo slittamento di senso non è difficile riconoscere ancora una volta i tratti del quadro referenziale della Shoah, il cui Memoriale sarà inaugurato nel centro di Parigi il 25 gennaio 2005». Ma l’eco sulla stampa è modesta. Per giunta «Libération» scopre che tra i «morti per la Francia» cui il Memoriale rende omaggio c’è il già citato capitano Graziani, l’aguzzino di Louisette Ighilahriz. Seguirà una nuova «guerra delle date» per la celebrazione della ricorrenza, guerra che «ben oltre la sclerotica contrapposizione identitaria del mondo dei reduci, investì anche il Parlamento». Al cospetto di questa spaccatura, Jospin decise di soprassedere «per non imporre una data commemorativa che in quanto tale avrebbe dovuto avere un carattere consensuale». Poi furono le elezioni presidenziali e, ironia della sorte (ma forse anche a causa di quelle discussioni) Lionel Jospin fu clamorosamente escluso dal ballottaggio a favore di due reduci d’Algeria: Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen. E quel dibattito sui nessi tra la stagione di Vichy e quella della guerra d’Algeria finì, provvisoriamente, in soffitta. Ma, c’è da esserne certi, adesso che i socialisti sono tornati all’Eliseo, presto tornerà a riproporsi. paolo.mieli@rcs.it