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 2012  luglio 10 Martedì calendario

MILANO —

In Borsa spiegano che si tratta semplicemente del prezzo che paghiamo per restare agganciati alla moneta unica. No, non si tratta dell’Imu, della spending review o della riforma del lavoro. E’ il denaro che paghiamo di più. Più di tutti gli altri Paesi dell’euro, ad eccezione di Grecia e Spagna, e molto di più di quelli europei che però hanno conservato la propria valuta, come Lituania, Romania, Polonia. Anche l’Ungheria, che pure ha chiesto aiuti massicci a Bruxelles e ha un assetto politico che somiglia a una dittatura, oggi trova sul mercato denaro a un costo inferiore a quello dell’Italia. Il paradosso ieri è apparso di tutta evidenza quando a metà mattinata lo spread tra i Bond dell’Irlanda e i Bund tedeschi ha toccato quota 464 punti, scendendo 9 punti sotto il Btp decennale della Repubblica italiana, che nello stesso momento segnava 473 punti. L’Irlanda, per chi non lo ricorda, non è esattamente un partner virtuoso dell’Ue. Solo tre settimane fa Bruxelles è dovuta intervenire con una nuova tranche di aiuti per 2,3 miliardi, dopo averne concessi già per quasi 35 miliardi.
Un paradosso. Non l’unico. A metà giugno, per esempio, la Polonia ha emesso 1,5 miliardi di bond a 10 anni in euro spuntando un tasso del 5,5%, contro il 6,2% che pagava l’Italia nello stesso momento. E ancora: ieri sul mercato la Romania ha trovato finanziamenti a tre anni a un tasso del 4,35%, 40 centesimi in meno del nostro Paese. Possibile che la probabilità che nei prossimi tre anni Roma non riesca a ripagare il suo debito sia superiore a quella di Bucarest? A guardare i numeri non c’è dubbio: è escluso. Il mercato però dice il contrario. E non è solo lo spread a indicarlo. La riprova viene dalle quotazioni dei «Cds», i credit default swap, il cui prezzo, semplificando, indica quanto costa farsi garantire da terzi (una compagnia di assicurazioni, per esempio) la restituzione del debito in caso di fallimento del creditore. E’ una misura del rischio «percepito». E come per lo spread, più questo è alto più il relativo Cds sarà caro. E i prezzi ieri assegnavano all’Italia maggiori possibilità di fallimento non solo della Romania, ma anche di Slovacchia, Polonia, Lituania, Islanda, Slovenia. Pure del Marocco, il cui Cds quotava 277,20 contro i 517,52 dell’Italia e i 579 della Spagna.
E’ chiaro che tutto ciò non ha nulla — o molto poco — a che fare con i fondamentali economici dei vari Paesi. Ma è a questi indicatori che guarda il mercato per decidere dove posizionarsi per scommettere contro la tenuta dell’euro. Contro un vestito che a molti comincia a stare stretto e — su questo punta la speculazione — prima o poi da qualche parte potrebbe cedere. Chi non ha l’euro non corre questo rischio, ed è uno dei motivi per cui nella Ue dell’Est i tassi non sono schizzati alle stelle. Mancano i presupposti per speculare. Che invece abbondano nei Paesi «condannati» all’euro. Soprattutto quelli più liquidi. Dopo aver munto la periferia, la speculazione adesso sta puntando ancora più forte sui mercati dove la liquidità rende il gioco facile. Prendiamo Spagna e Portogallo, due «grandi malati» d’Europa: all’inizio dell’anno lo spread tra i titoli decennali dei due Paesi iberici era di 1.080 punti base. Ieri di 281. Delle due l’una: o il Portogallo è riuscito a tempo di record a mettere in ordine i conti, oppure gli operatori hanno abbandonato la marginale Lisbona (in senso finanziario) per giocare con i più liquidi Bonos spagnoli. Il cui spread, non a caso, è esploso.
Speculare non è così difficile. I Cds sono titoli scambiati «over-the-counter», cioè fuori dalle Borse regolamentate, e i prezzi, ovvero il livello di rischio di un Paese, sono fissati dagli intermediari, ossia i soliti Big di Wall Street. Un metodo grosso modo simile a quello seguito per fissare il tasso Libor, che la scorsa settimana è costato il posto ai vertici della banca inglese Barclays colpevoli di aver creato un «cartello» per fissare il tasso, a cui sono agganciati molti mutui immobiliari.
In un mercato efficiente il valore dello spread e del Cds di uno stesso Stato dovrebbero convergere, visto che misura un identico rischio. Ma non è così. E questo gioco sta costando all’Italia molto caro. Gli operatori spiegano che non potendo avere Roma (ma vale anche per la Spagna) le mani libere sulla gestione della politica monetaria, e quindi non avendo difese per opporsi alla speculazione (se non passando per la Bce), è in completa balia dei mercati. I quali hanno un’orizzonte temporale di qualche ora e non stanno troppo a guardare riforme e manovre, i cui effetti si vedranno solo tra qualche anno.
Federico De Rosa