Giampaolo Visetti, Affari & Finanza, La Repubblica 9/7/2012, 9 luglio 2012
PECHINO IL SORPASSO DELL’INDUSTRIA PRIVATA
Un luogo comune occidentale descrive un’economia cinese in cui ancora lo Stato avanza mentre il privato si ritira. I dati dimostrano invece che, sebbene la Cina resti un mercato a forte conduzione pubblica, gli sforzi di Pechino per creare un sistema retto su due gambe non sono vani. Dal 1998 al 2010 il numero delle industrie statali sono diminuite da 64.700 a 20.300 e la loro percentuale rispetto al totale delle imprese è scesa dal 39,2 al 4,5%. Il numero delle aziende private che hanno raggiunto le dimensioni necessarie per essere considerate dalle statistiche è passato da 10.700 a 272.300. Nello stesso periodo la produzione totale delle industrie statali è diminuita dal 49,6 al 26,6%. Negli ultimi tre anni inoltre la produzione complessiva del settore privato è stata superiore a quello dell’economia di Stato. I dipendenti delle industrie pubbliche nel 2009 erano 37,5 milioni, rispetto a 1,6 milioni di stipendiati privati: lo scorso anno i primi sono scesi a 18,9 milioni, mentre i secondi sono cresciuti a 33,1 milioni. A favorire la tendenza verso un riequilibrio dell’economia cinese, sempre più orientata al mercato, le riforme fiscali. Nel 2011 le industrie statali hanno pagato il 71,7% delle imposte, rispetto al 14,6 delle tasse derivanti da versamenti privati. Il crollo del «guoijin mintui», la crescita dello Stato a scapito del settore privato, è oscurato dallo schema in base al quale in Cina i gruppi pubblici e quelli privati sono in concorrenza. Questo, a partire dalle aperture
di Deng Xiaoping nel 1978, è stato vero fino a un paio di anni fa. Oggi invece, a causa della necessità di Pechino di colmare con i consumi interni il vuoto lasciato dalla domanda straniera di prodotti, le imprese statali e quelle private si stanno orientando a ruoli complementari. Lo Stato domina i settori a forte intensità di risorse, capitale e tecnologia, sollecitati dalla competizione globale. I privati si concentrano sui prodotti ad alta domanda di lavoro e a diffusione regionale, capaci di rompere il monopolio Usa-Germania nel manifatturiero grazie alla concorrenza sul basso costo dell’occupazione. Con una simile evoluzione è chiaro che la Cina, che da terzo mercato mondiale si appresta a diventare il primo, si avvia a generare un sistema misto, in cui comunismo e capitalismo non sono più alternativi, ma coordinati. Lo Stato continua a presidiare i settori chiave, dall’energia al credito, dall’acqua all’alimentare, mentre il privato finisce di conquistare commercio, industria e servizi. L’obbiettivo è smantellare i monopoli pubblici interni per dare ossigeno ai consumi e ad una nuova classe agiata fedele al partito, capace di controllare il giovane ceto medio. Oggi la Cina conta 69 imprese tra le prime 500 al mondo: la «spartizione» tra pubblico e privato punta a raddoppiare tale numero entro il 2020, cambiando il profilo dell’economia internazionale. Una crescita indispensabile non solo per proteggere Pechino dalla crisi della zona euro. La seconda potenza mondiale comincia infatti a fare i conti con la sua taciuta «bomba a orologeria», rappresentata dall’invecchiamento della popolazione. Il numero dei giovani precipita, mentre quello degli anziani esplode. Nel 2009 in Cina vivevano 167 milioni di ultra sessantenni, un ottavo del totale: nel 2040 saranno 480 milioni, poco meno di un terzo della popolazione. Da sei lavoratori ogni ultrasessantenne si passerà a due. La velocità dell’invecchiamento cinese non ha uguali nei Paesi avanzati ed è la ragione per cui Pechino vuole che i privati più ricchi compensino gli oneri di uno Stato più povero: anche alla Cina, per camminare, ormai occorrono due gambe.