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 2012  luglio 12 Giovedì calendario

MANAGER QUANTO MI COSTI


Settantanovemilacentocinquantanove euro. È lo stipendio medio, al lordo delle tasse, dei 48.083 dirigenti pubblici italiani, che tutti insieme appassionatamente si aggiudicano un monte-retribuzioni pari a 3 miliardi e 806 milioni. Se dunque il commissario alla spending review, Enrico Bondi-“Mani di forbice”, riuscirà a far passare il taglio del 20 per cento della dirigenza statale che ha messo sul tavolo del governo si avrà un risparmio di circa 760 milioni. Ma sarà dura. «Non si può colpire alla cieca», mette le mani avanti il capo della Funzione pubblica Cisl, Giovanni Faverin. I nostri capi-travet guadagnano bene. La media, che “l’Espresso” ha calcolato sulla base del “Conto annuale 2010” della Ragioneria generale dello Stato, nasconde situazioni molto diverse. Ed è livellata verso il basso dai 20.374 dirigenti non medici del Servizio sanitario nazionale (64.654 euro a testa, sempre lordi) e dai 9.165 della scuola (66.677 euro). Tutti gli altri stanno molto meglio. Basta pensare che, in media, incassano il 49 per cento più dei loro pari-grado impiegati nelle aziende private. Prendiamo un dirigente ministeriale di prima fascia (sono 80). La sua busta-paga è un autentico rebus (nel 2007 i ricercatori dell’Ocse hanno ricostruito le retribuzioni pubbliche coreane e australiane, ma si sono arresi davanti alla complessità di quelle italiane). Alla fine si capisce però che si mette in tasca 50.556 euro di stipendio (compresa la cosiddetta indennità integrativa speciale), ai quali somma 2.990 euro di “Retribuzione individuale di anzianità” e altri 12.214 di tredicesima. Si arriva così a quello che i tecnici della Ragioneria chiamano “Totale voci stipendiali”, che è però solo il 34,2 per cento dell’importo finale. Per arrivare al quale bisogna aggiungere 124.594 euro di “Indennità fisse” e 1.902 di “Altre accessorie”. Alla fine, fa 192.256 euro lordi. Una bella cifra, ma comunque molto al di sotto del misterioso tetto imposto dal governo alle retribuzioni pubbliche (sembra uno scherzo e invece è vero: a seconda di chi fa i calcoli, oscilla tra i 296 mila e i 305 mila euro). Gli alti papaveri dello Stato italiano (che secondo l’indagine dell’Ocse “Government at a glance 2011” sono i meglio pagati al mondo, con una media di 308 mila euro per i top manager) riescono addirittura a doppiarlo. In base all’incompleto elenco che il ministro della Funzione Pubblica, Filippo Patroni Griffi, ha consegnato alla fine di febbraio al Parlamento, il capo della Polizia, Antonio Manganelli, è il dirigente pubblico meglio pagato d’Italia, con 621.253 euro e 75 centesimi l’anno. A titolo di raffronto, Bernard Hogan-Howe, che non è un viandante ma il capo della Metropolitan Police di Londra, è fermo a quota 298 mila euro. Negli Stati Uniti, il capintesta dell’Fbi, Robert S. Mueller, ha uno stipendio base di 120 mila euro, che sale a 153 mila con le indennità. E in Spagna il direttore generale della Polizia non va oltre i 71 mila euro, meno dunque di un travet con i galloni di capo di seconda fascia e la scrivania a palazzo Chigi (73.783 euro). I dirigenti pubblici italiani, insomma, non si possono davvero lamentare dei loro stipendi. Ma non è questo il punto. Più che a sforbiciarla, bisognerebbe riuscire ad agganciare la busta-paga di Manganelli alle statistiche sui reati commessi nel Paese e sui presunti responsabili assicurati alla giustizia. E su questo fronte siamo davvero indietro. Nella pubblica amministrazione la meritocrazia rimane una bestemmia. Perché, al di là delle tante parole in libertà, i sindacati, che hanno nei travet (e nei pensionati) il loro zoccolo duro, continuano a non volerne sapere. E il 68,08 per cento dei dirigenti pubblici ha in tasca la tessera con il logo di Cgil, Cisl o Uil (contro una media nazionale del 33,7 per cento), sigle con le quali spesso si crea un rapporto incestuoso: solo di recente ai capi del personale delle amministrazioni è stato vietato di assumere incarichi sindacali e di giocare così due parti in commedia (leggendaria è la vicenda del dirigente-sindacalista di palazzo Chigi la cui firma appariva due volte in calce ai contratti: nella casella del datore di lavoro e in quella della controparte) . Il risultato è che a ogni passo avanti compiuto in direzione di un riconoscimento dei meriti individuali ne seguono almeno due indietro. Racconta Renato Brunetta, l’ex ministro della Funzione Pubblica che aveva introdotto sistemi di valutazione dei singoli dipendenti: «Patroni Griffi ha cercato di tornare al voto di merito attribuito agli uffici nel loro complesso. Tra l’altro, se fosse passata la sua linea, che subordinava ogni forma di mobilità alla concertazione con i sindacati, oggi Bondi avrebbe le mani legate». Se il blitz del nuovo ministro non è andato in porto, tutti i meccanismi premiali timidamente introdotti negli anni sono stati di fatto sabotati. Dice Alberto Stancanelli, dirigente generale di palazzo Chigi, già capo di gabinetto alla Funzione Pubblica: «L’indennità di posizione, che doveva essere diversificata in relazione alla responsabilità dell’incarico, alla fine viene riconosciuta a tutti in una misura molto simile». Per non parlare dei bonus legati al raggiungimento dei risultati messi in bilancio, che negli ultimi anni secondo la Corte dei conti sono cresciuti del 30 per cento. Il dubbio che si tratti di una cosa poco seria viene anche solo dalla lettura dell’ultimo contratto collettivo dei dirigenti pubblici, dove all’articolo 26 si dice che le amministrazioni non devono sganciare l’extra se il target annuale da centrare non è stato neanche stabilito. Conferma Stancanelli: «Gli obiettivi assegnati ai dirigenti spesso sono tutt’altro che impegnativi. Così, il premio di merito è concesso a tutti e ancora oggi non rappresenta affatto il 30 per cento della retribuzione complessiva, come prevedeva la riforma Brunetta». Nella busta paga del dirigente di prima fascia di palazzo Chigi, per esempio, pesa per un misero uno per cento. Diceva Sabino Cassese: «(Nel pubblico impiego) chi vuole, lavora; chi no, se ne astiene». Sono passati tanti anni ma poco è cambiato (a parte il numero dei direttori generali, cresciuti dai 351 del 2001 ai 500 tondi del 2006). La prova del nove la fornisce il Comitato dei garanti della dirigenza pubblica istituito a palazzo Chigi, al quale le amministrazioni devono ricorrere se licenziano (o non confermano) un travet con i gradi per mancato raggiungimento degli obiettivi o inosservanza delle direttive. Nel 2008 il suo capo mandò una tragicomica lettera al ministro in carica, Luigi Nicolais, lamentando di non essere mai stato interpellato una sola volta nell’arco di tre anni. La musica non è cambiata: negli ultimi dodici mesi ai cinque del comitato non è restato che girarsi i pollici. Come a tanti dirigenti pubblici.