Massimo Riva, l’Espresso 12/7/2012, 12 luglio 2012
NON È FINITA QUI
L’Europe se fera par la monnaie ou ne se fera pas», così ammoniva Jacques Rueff, il mentore economico del generale Charles de Gaulle, quando l’idea di una moneta comune era ancora un’astrazione concettuale. Gli eventi di questi mesi e il recente vertice di Bruxelles non hanno fatto altro che confermare la lungimiranza storica di queste parole. Dicono magari bene i critici quando segnalano che la vulnerabilità evidente dell’euro dipende dal fatto che l’unione monetaria non può reggere nel vuoto di una cornice politico-istituzionale adeguata. Ovvero in mancanza sia di una banca centrale dotata di pieni poteri sia di una politica fiscale concordata e strutturata nei bilanci dei Paesi membri. In altre parole che il Principe prima debba affermare il suo primato politico e poi, soltanto poi, possa permettersi di coniare monete con la sua effige. Ma la buona dose di realismo contenuta in questi rilievi non tiene presente che così più che indicare la soluzione dei problemi se ne mettono sul tappeto di ancora più ardui e complessi. Certo che sarebbe stato preferibile puntare alla costruzione di un’Europa federata partendo dal versante delle istituzioni politiche: un governo comune, frutto di una democratica investitura, avrebbe sicuramente risposto meglio agli assalti della speculazione contro l’euro o forse questi attacchi neppure si sarebbero verificati. Ma, se non si vuole essere realisti a metà, occorre chiedersi chi possa credere che la via dell’unione politica sarebbe stata praticabile senza che - prima e non dopo - gli interessi economici conflittuali fra i vari paesi fossero stati sottoposti alla benefica torsione delle regole comuni, del mercato unico e infine della moneta. I padri costruttori dell’Europa, cominciando la loro ope- ra con la Comunità del carbone e dell’acciaio, hanno fatto al riguardo una scelta avveduta. Solo l’integrazione degli interessi economici può aprire, pur tra mille e robuste difficoltà, la strada che porta al superamento delle sovranità nazionali: spianando per passi successivi gli ostacoli che ingombrano il cammino verso il traguardo di una politica europea federata. Se è vero che il divario fra esistenza di moneta unica e assenza di integrazione politica adeguata rischia ancora di far saltare l’intero impianto europeo, non meno vero però è che anche l’ultimo vertice di Bruxelles ha ribadito la forza cogente degli interessi economici nello spingere verso maggiori intese di politica comune. Presentare i risultati di quel summit come una sconfitta di Frau Merkel (a pag. 70 un servizio sulla cancelliera) o una vittoria di Mario Monti è fare la caricatura della realtà. Alla formulazione di nuovi accordi si è arrivati semplicemente perché, pur in appena dieci anni di vita, l’euro è talmente penetrato nelle economie nazionali di Eurolandia da rendere per tutti esorbitante il costo di una dissoluzione del sistema. Si tratta oggi piuttosto di capire meglio la portata effettiva,in termini pratici, delle intese raggiunte sotto l’incubo di una da chiarire un capitolo cruciale degli accordi: quello del meccanismo di intervento sul mercato dei tassi d’interesse - il cosiddetto “anti-spread” - che rappresenta anche un significativo passo avanti in termini di maggiore coesione politica fra gli Stati con moneta unica. In questi mesi gli attacchi speculativi hanno creato un differenziale abnorme fra i costi di finanziamento dei diversi debiti sovrani per cui Italia e Spagna, per esempio, si vedono costrette a pagare interessi di quattro o cinque volte superiori a quelli della Germania: una situazione insostenibile anche perché minaccia di annullare perfino i risultati delle strategie di aggiustamento contabile nei paesi più esposti. Ora a Bruxelles s’è deciso di contrastare questo andamento aiutando i paesi più impegnati nel risanamento contabile attraverso acquisti sul mercato dei titoli emessi a copertura dei propri debiti. Ottima scelta le cui tecnicalità operative saranno però definite nel vertice ministeriale del 9 luglio. I punti da chiarire non sono molti, ma tutti decisivi. Primo: chi stabilirà che il singolo paese abbia titolo per essere aiutato? Ovvero, chi e come giudicherà che stia realmente aggiustando i suoi conti? Secondo: chi potrà mettere in moto la procedura degli acquisti di sostegno, il paese interessato oppure un concerto di istituzioni comunitarie? Terzo: come sarà identificata la soglia oltre la quale può o deve scattare l’intervento calmieratore? Fissarla a 200 piuttosto che a 500 punti dal riferimento tedesco fa un’enorme differenza. E non basta: c’è anche la complicazione che rendendo pubblico in partenza un numero chiave si rischia di offrire alla speculazione un comodo riferimento per le sue mosse. Toccherà al vertice del 9 luglio decidere se davvero a Bruxelles l’Unione dell’Europa ha fatto un salto in avanti.