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 2012  maggio 23 Mercoledì calendario

Nel Belpaese salari fermi da 20 anni - Una volta c’era l’Italia che insaporiva la po­lenta con l’aringa: affamata, e poverissima

Nel Belpaese salari fermi da 20 anni - Una volta c’era l’Italia che insaporiva la po­lenta con l’aringa: affamata, e poverissima. Poi c’è n’è stata una opulenta e godereccia: quella che viveva al di sopra delle proprie possibilità. Adesso,nella terra di mezzo della crisi,c’è l’Italia sobria per auto-imposizione, resa parca nei con­sumi e nello stile di vita da salari al palo da vent’anni, dal profluvio di tasse, impo­ste e balzelli e dal timore di perdere il posto di lavoro. Un ex-Belpaese sem­pre più di vecchi e di culle semi-vuote. Una nazione che fatica a progettare il futuro perché incapace di offrire pro­spettive ai giovani, e in cui diventa an­cora più profondo il solco che separa Nord e Sud e le donne dagli uomini. E dove l’ascensore sociale, quello che permette ai figli d’operai di vestire la gri­saglia da manager anzichè la tuta blu, è quasi fermo per manutenzione. Mai come quest’anno il Rapporto an­nuale Istat è stato un tale condensato di criticità, ombre e problemi. Come se il 2012 avesse presentato, all’improvvi­so, il conto di un decennio di crescita asfittica, la peggiore (+0,4%) di tutta l’Unione europea.Andrà anche peggio quest’an­no (- 1,5% la contrazione stimata del Pil), per poi riprendere, nel 2013, col solito andamento lento (+0,5%). Paghiamo la cronica, e irrisolta, scarsa produttività, appena attenuata dalla tenuta del­l’export ( 1,2%quest’anno).Colpa delle poche ri­sorse destinate a ricerca e sviluppo, dei colpi di accetta agli investimenti pubblici, della piaga del sommerso (tra 255 e 275 miliardi, cioè fra il 16,3% e il 17% del Pil) e dell’incapacità di attrarre investimenti stranieri spesso a causa di una buro­crazia respingente. Negli anni Duemila «l’Italia ha dilapidato il di­videndo dell’euro», sintetizza Enrico Giovanni­ni, presidente dell’istituto di statistica. Dopo gli sforzi e i sacrifici fatti per entrare nel club della moneta unica tra il 1992 e il ’93, il Paese si è come riassestato su vecchie abitudini contrappuntate da una preoccupante tendenza all’indebitamen­to dello Stato, da avanzi primari dissolti e da una pressione fiscale diventata via via insopportabi­le. Così, il carico delle tasse sulle famiglie è passa­to dal 13,2% degli anni 1992-1996 al 14,1% del 2001, per raggiungere il 15,1% nel 2011, mentre il potere d’acquisto è sceso di circa il 5%e la percen­tuale di famiglie che si trovano al di sotto della so­glia minima di spesa per consumi è attorno al­l’ 11%. Ma il dato generale sulla povertà scoper­chia le differenze geografiche: al Nord l’inciden­za della povertà è al 4,9%, al Sud è al 23%. Evidente l’effetto-crisi sul carrello della spesa: una contrazione delle spese private prevista per quest’anno al 2,1%, dato peggiore di quello 2009 (-1,9%), quando il Pil tricolore aveva subìto un tracollo del 5,5% in seguito al virus dei mutui sub­prime. No shopping , dunque, un fenomeno deri­vato dalla situazione del mercato del lavoro. L’Istat colloca il tasso di disoccupazione al 9,5% nel 2012 e al 9,6% nel 2013, ma il dato più preoccu­pante riguarda quelli che potremmo chiamare in modo moraviano “i rasse­gnati“, ovvero gli 1,8 milioni di persone che pur non avendo un impiego hanno smesso di cercarlo perchè pensano che non lo troveranno mai. Mentre l’Italia invecchia (l’età media degli uo­mini sfiora gli 80 anni, quella delle don­ne gli 85), molti entrano a far parte dei cosiddetti neet (“not in education, em­ployment or training“), cioè coloro che non studiano, non lavorano, nè fre­quentano corsi di formazione. Sono ben 2,1 milioni. L’alta disoccupazione giovanile e il boom dei precari nell’ulti­mo ventennio (+ 48%) spiegano il moti­vo per­cui quattro giovani su dieci vivo­no ancora in famiglia. Bamboccioni ob­bligati. In un Paese in cui «le opportunità di migliora­mento rispetto ai padri si sono ridotte e i rischi di peggioramento sono aumentati» (solo l’8,5% di chi ha un padre operaio diventa dirigente), chi ol­tre ai giovani soffre di più sono le donne. Il 33,7% tra i 25 e i 54 anni è senza reddito, e una donna su tre perde il posto subito dopo la nascita del figlio. Essere madri è ancora una colpa.