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 2012  maggio 23 Mercoledì calendario

«IO, MOSTRO PER UN GIORNO IN QUESTURA PENSAVO: CHI PORTA MIA FIGLIA A CASA?» —

«Mi rendo conto di essere una persona interessante...». Sul tavolo al centro del salotto c’è una scatola con dentro una dozzina di telecomandi. Accanto al divano giace un cespuglio di cavi elettrici, dentro a un sacchetto da supermercato è raccolto un pugno di microchip e schede. «Ma il computer non lo accendo, oggi non ne ho voglia».
Meglio così. Se facesse clic con il mouse, conoscerebbe la temperatura esatta della febbre che continuava a salire in città mentre lui era chiuso in una stanza al secondo piano della questura. «Bastardo». «Il prossimo che salta in aria sei tu». «Devi morire pezzo di m...». Sulla pagina Facebook che pubblicizza la sua ditta gli ultimi messaggi in bacheca erano questi. «Infatti sto fermo, chiuso in casa. Non si tratta una persona in questo modo, ma alla fine la gente dimentica in fretta. Passerà».
A vederlo in piedi sulla porta, la differenza con l’uomo che aziona il detonatore della bomba è di almeno dieci centimetri in altezza e altrettanti di giro vita. Ogni giorno ha il suo mostro, lunedì è stato il suo turno. «A un certo punto ho pensato che mi avrebbero arrestato. Erano gentili, mi rassicuravano, ma intanto mi tenevano lì. Pensavo a mia figlia piccola, che intanto giocava con due agenti, e mi chiedevo chi l’avrebbe riportata a casa».
Lo ha fatto lui, alle tre di notte, trovando una piccola folla davanti al portone della sua casa nel quartiere di Sant’Elia. C’era anche una comitiva arrivata da Mesagne, e nel bagagliaio delle loro auto pare ci fosse posto per mazze e spranghe. Lo raccontano i suoi vicini, gli stessi che durante il suo lento pomeriggio da presunto assassino dispensavano dettagli come sentenze. Sono due fratelli che vivono insieme, gente molto chiusa, buongiorno e buonasera, mai una confidenza in quarant’anni che abitano qui, in effetti lui ha un braccio storto, vada sul tetto e poi vedrà che razza di macchinari da elettrotecnico che ci ha messo.
«In realtà si tratta di una doppia parabola per la televisione e di un cavo da radioamatore. Comunque è vero, con questi marchingegni ci lavoro, credo di saperne qualcosa». Quando hanno un problema con qualche apparecchio i vicini mi citofonano sempre, aggiunge. Ma questo dettaglio, nella sua giornata da mostro, non lo ricordava nessuno. «Ascolti: io credo di avere la coscienza a posto. Sono una persona onesta, consapevole del fatto che è avvenuto un fatto gravissimo».
Questa storia è diversa dalle altre, non ci sono precedenti. La bomba in una scuola è un ulteriore passo verso un moderno Medioevo, anche ieri gli istituti di Brindisi erano mezzi vuoti, perché la paura che possa accadere di nuovo si vince soltanto dandole un volto. Anche l’inchiesta è particolare, condizionata com’è da un video che ha dato agli investigatori un indubbio vantaggio ma ha generato la speranza di una soluzione immediata del caso.
Non esistono certezze, invece, persino sulla ricostruzione della vicenda. Il dubbio di giornata gira sulla supposizione che l’uomo ripreso dalla videocamera potesse avere un altro telecomando in tasca, oltre a quello stretto nella mano sinistra. Come se uno fosse servito per «congelare» l’ordigno e l’altro lo avesse innescato in un preciso momento, al passaggio delle ragazze scese dall’autobus proveniente da Mesagne. Fosse davvero così, ci sarebbe almeno una logica, per quanto perversa.
Gli investigatori fanno il loro mestiere, ieri ad esempio hanno ascoltato 4 professori della scuola. Cercano persone con determinate caratteristiche, le ascoltano, verificano eventuali alibi, tutte operazioni bisognose di un tempo che nessuno sembra disposto a concedere. Così, nello spazio di tre giorni, abbiamo avuto l’ex sottufficiale delle forze armate esperto di esplosivi, che però si trovava in Grecia al momento dell’attentato, e subito dopo, con un giorno in più di attesa da sfogare, è stato il turno di questo elettrotecnico, che al momento dell’attentato si trovava a trecento metri dalla scuola. «Ero uscito proprio per comprare dei pezzi di ricambio al mio baracchino tecnologico. Non sono certo felice di essere un sospettato, ma può capitare, e in fondo non mi è andata così male».
Ogni tanto succede, davanti a crimini orrendi i tempi degli investigatori e l’ansia dei media non sono mai in sintonia. Quest’uomo è stato ascoltato a lungo come testimone, con la speranza concreta e una certa convinzione che fosse anche il colpevole. A scavare nei ricordi la sua vicenda è paragonabile soltanto a quella di Paolo Onofri, il papà del piccolo Tommaso, rapito dalla sua culla la notte del 2 marzo 2006, che dall’alba al tramonto di un giorno trascorso in questura divenne un reietto, con i sospetti sul suo conto che diventavano certezze intanto che le ore trascorrevano senza che nessuno avesse mai formulato nei suoi confronti l’accusa più infamante per un padre, artefice di una cospirazione mirata a uccidere un figlio.
Nel dicembre del 2007 Azouz Marzouk, che certo non era la migliore persona del mondo, fu ritenuto responsabile di una strage che gli aveva portato via l’unico figlio e la moglie. Accusato alla sera, scagionato al mattino. Quando tornò dalla Tunisia, si cominciò a cercare altrove, guardando con occhi diversi due rispettabili vicini di casa che si chiamavano Olindo e Rosa.
A distanza di diciotto mesi non c’è ancora un colpevole per la morte di Yara Gambirasio, la ragazza di Brembate. Ma quando venne fermato Mohammed Fikri, un muratore che lavorava nel cantiere poco distante dal luogo dove la vittima era stata vista per l’ultima volta, nel paese della val Brembana comparvero striscioni inneggianti alla pena di morte e alla giustizia fai da te. Riflessi condizionati, rabbia da sfogare su mostri da niente, mostri di giornata. Succederà ancora. A quest’uomo non interessa, lui vuole solo chiudere la porta. «Chiedo solo di essere lasciato in pace. Non voglio essere riconosciuto per strada. Per favore, non scriva il mio nome».
Marco Imarisio