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 2012  maggio 22 Martedì calendario

ALFANO SCONFITTO ANCHE IN CASA SUA. LA CADUTA DEI CENTO BALUARDI

«Ad Angelino, oltre al famoso "quid", mancano i voti». Il sale gettato dal nemico trionfante sulle ferite sanguinanti di Alfano, umiliato perfino a casa sua, la destrorsa Agrigento, fotografa un crollo mesi fa impensabile. E con il Pdl frana la Lega. Non è una sconfitta: è una Caporetto.
Tutto avrebbe digerito, il segretario pidiellino, meno ciò che è successo. Avrebbe mandato giù la vittoria dei grillini, dei lombardiani, delle sinistre, dei verdi e dei gialli ma non quella di Marco Zambuto, il sindaco uscente che, nato da una costola Dc, aveva già vinto nel 2007 col bollino di indipendente e, dopo essersi fatto berlusconiano per un mattino, era tornato a dichiarargli guerra accusandolo di avere abbandonato a se stessa la città natale.
Credeva di aver fatto una gran furbata, l’ex guardasigilli, soffiando al centrosinistra il candidato Totò Pennica che sulla carta aveva tutto per stravincere: era «civico», aveva l’ok del Pdl, era stato segretario di Mannino e aveva avuto come testimone di nozze Cuffaro. In un’altra Sicilia, avrebbe fatto cappotto: è stato schiantato 75% a 25%.
Il guaio è, per la destra, che la Sicilia del famoso cappotto dei 61 parlamentari contro zero della sinistra, non c’è più. Lo dice lo smottamento di Palermo, dove la macchina da guerra berlusconiana è stata ridotta a un misero 12,6% e dov’è incoronato quel polposo arruffapopolo di Leoluca Orlando, che da sì un dispiacere al Pd (impagabile Giorgio Schultze, responsabile della campagna di Ferrandelli: «È stata sconfitta la democrazia») ma degli azzurri è acerrimo avversario. Lo dicono le batoste in storiche piazzaforti come Marsala, Paternò (il paese di Ignazio La Russa) e Barcellona Pozzo di Gotto, feudo di Domenico Nania. E se possono consolarsi per aver salvato Trapani, grazie a un generale dei carabinieri estraneo al partito, i pidiellini si ritrovano battuti perfino là dove pareva impossibile. «Votate Ammatuna!», avevano invitato insieme Alfano, Bersani e Casini a Pozzallo, profondo Sud siciliano. E gli elettori un Ammatuna lo hanno eletto. Non il Roberto deputato regionale che volevano tutti i partiti, però. Un altro: Luigi. Esattamente come era successo due settimane fa, al primo turno, ad Avigliana, in Val di Susa. Dove il candidato di tutti era uscito bastonato.
Agrigento è però solo la prima, in ordine alfabetico, delle tappe della disfatta d’un esercito che un tempo pareva imbattibile. Persa Alessandria, dove il sindaco uscente Piercarlo Fabbio è stato travolto da Maria Rita Rossa, che perfino nel cognome porta il marchio inviso al Cavaliere. Persa L’Aquila, che era sì di sinistra ma nell’autunno 2009, nel pieno dei trionfi berlusconiani (resta indimenticabile il video in una scuola elementare: «Pensate che Silvio Berlusconi sia un buon presidente?» Coro: «Sììììì!» «Allora daremo il voto anche ai bambini dai cinque anni in su») pareva destinata a diventare azzurrissima e i consiglieri azzurri sono invece 2 su 32: catastrofico.
E poi persa Asti, dove il sindaco uscente nel 2007 aveva vinto largo al primo turno. E Belluno, dove il primo cittadino destrorso che chiedeva la conferma della vittoria facile di cinque anni fa non è arrivato manco al ballottaggio, tutto a sinistra, che ha visto soccombere la candidata ufficiale bersaniana battuta dall’eretico Jacopo Massaro nonostante la città avesse alzato il sopracciglio all’idea di ritrovarsi addirittura un assessore con i capelli rasta.
E persa ancora l’«inespugnabile» Como, dove la rissa fratricida tra pidiellini ortodossi di fede berlusconiana stretta e quelli di fede postmissina, ha fatto schizzare il cattolico democratico Mario Lucini a uno strabiliante 75% che solo un anno fa sarebbe stato dato dagli scommettitori come più improbabile di un uomo incinto. E se già era una umiliazione assistere dal di fuori al ballottaggio di Cuneo, dove il partito rastrella faticosamente il 7,5%, mai Alfano avrebbe potuto immaginare di perdere anche Isernia, dove il potente governatore Michele Iorio, azzoppato giorni fa da un verdetto che annulla le ultime Regionali, candidava sua sorella Rosa, che sommava potere al potere come direttore del distretto sanitario.
E poi persa Lucca, la città di Marcello Pera che pareva una solida rocca destrorsa piantata in mezzo alla Toscana rossa. E Monza, capoluogo di quella Brianza che sembrava un possedimento quasi geneticamente berlusconiano, e caduta malamente (36% contro 63%!) nonostante siano passati solo pochi mesi dalla «cerimonia» del trasferimento di un po’ di ministeri. E di batosta in batosta, da Genova a Parma, la destra si ritrova sconfitta dopo un ventennio (malissimo: meno della metà dei voti) perfino a Rieti, che ospitando da tempo immemorabile le feste missine era un po’ la Pontida di chi aveva il cuore nero o almeno azzurro scuro.
«E vai!», esulterebbe in altri momenti la Lega Nord. Anche il Carroccio, però, mentre arrivano da Parma e da Mira e da Comacchio le notizie delle vittorie grilline, arricchite da voti di protesta e indignazione che un tempo venivano riversati nei carnieri bossiani, esce dal passaggio elettorale con le ossa rotte. Ricordate cosa disse ridendo il Senatur alla nascita del governo Monti? «Se sono così fessi da farci tornare all’opposizione, ci rifacciamo la verginità e poi…» Sì, ciao. Tolto Tosi, un disastro. Sette ballottaggi persi su sette. Compresi quelli impossibili da perdere, come a Thiene, in quella provincia di Vicenza storicamente generosissima col «leon che magna el teròn».
Nella catastrofe elettorale, spicca una frase di Roberto Formigoni sul nuovo sindaco grillino di Parma: «Quel ragazzo ha sulle spalle una responsabilità molto forte: essere davvero una novità o affossare le speranze del nuovo». Notate la parola: «ragazzo». Federico Pizzarotti ha 39 anni. Quattro meno di Kennedy quando entrò alla Casa Bianca. Tre meno di David Cameron quando conquistò Downing Street. Tredici di più di Thor Möger Pedersen, il ministro delle finanze danese. Ma al governatore in camicia hawaiana, diventato parlamentare europeo quando Pizzarotti aveva 10 anni, deputato alla Camera quando ne aveva 14, presidente della Lombardia quando ne aveva 22, pare un ragazzino coi brufoli...
Gian Antonio Stella