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 2012  maggio 22 Martedì calendario

MARCHESE, «ROSSO» E PERMALOSO: L’ORA DELLA RIVINCITA DI UN VERO ANTIPATICO —

Oh, finalmente un Vero Antipatico. I genovesi hanno scelto Marco Doria come sindaco. E che cosa faceva Doria mentre il suo popolo arancione affollava (si fa per dire, eravamo quattro gatti in strada) piazza Fontane Marose, dov’è il suo quartier generale? Era all’università a far lezione di storia dell’economia (l’evoluzione dell’economia e delle politiche economiche dal 1860 agli anni del boom). «Con i miei studenti — dice quasi offeso — non ho parlato per niente di elezioni, ma soltanto di quello che porteranno all’esame». Nato il 13 ottobre del 1957, Doria è quindi una Bilancia: grande senso della giustizia, eccesso di attribuzione di valore all’estetica, freddezza esteriore che può essere confusa con l’antipatia, appunto. Il fatto che sia aristocratico, di origini, di cultura e di parole, ai genovesi piace. Perché sono così anche loro: gli operai del porto, quelli dell’acciaio, i piccolo borghesi, i ricchi borghesi, gli imprenditori; anche quelli che non hanno sangue blu sono aristocratici. A proposito di imprenditori: Riccardo Garrone, sigaro toscano in bocca e spolverino di Burberry addosso, nella mitica Galleria Mazzini che congiunge il teatro Carlo Felice con il ristorante Europa, due cose cui è affezionato, dice: «Questa mattina sono andato a votare...». Anche questo è un modo aristocratico per dire che ha votato Doria.
E quanto è snob la scelta del suo quartier generale. È lì appeso appena sopra i caruggi, Sestiere del Molo angolo Sestiere della Maddalena. Uno strepitoso palazzo del Seicento a vederlo da fuori, ma se ci entriamo dobbiamo essere in pochi e leggeri perché altrimenti il pavimento rischia di crollare. È un posto di don Gallo il prete anarchico che s’è subito schierato con Doria. Ci sono più manifesti su De André («A forza di essere vento») e su Nanda Pivano («Signora Libertà, Signora Anarchia») e sul test HIV («te lo facciamo anonimo e gratuito») che non sul sindaco. Piccolo piccolo è un cartoncino appeso a una porta: si vede uno di quei tipi che mettono la spada sulla spalla dell’altro inginocchiato. Potrebbe essere letto come metafora, c’è scritto: «Oua Tucca a Ti», ora tocca te.
Anche a Marco Doria lo chiamano il marchese rosso. Ma quello vero era suo padre Giorgio. Leggenda, ma non troppo, vuole che fosse stato diseredato quando manifestò la sua fede comunista e che volle la bandiera di Rifondazione comunista vicino a sé in punto di morte. Vero è che il papà di Marco, quand’era vicesindaco di Genova, ai canottieri genovesi che tornavano dalla regata storica delle Repubbliche marinare disse, non sopportando che fossero arrivati soltanto secondi: «Il mio antenato ammiraglio Andrea Doria vi avrebbe fatto frustare». Altrettanto vero è che Giorgio Doria non si limitò a dire che la terra doveva andare ai contadini, ma gliela regalò davvero. A Marco gli hanno rotto le scatole perché ha case e palazzi, ma mica li ha rubati, con quel cognome. Dichiara 158 mila euro l’anno di reddito. Non sopporta le persone superficiali: a un certo Rixi, candidato della Lega che in un dibattito pubblico ha osato dirgli: diamoci del tu, ha risposto: non mi pare proprio il caso. Tratta i giornalisti come i suoi studenti: se gli fanno una domanda stupida, a volte capita, non risponde nemmeno. È permaloso: s’è molto offeso quando una banda di ragazzotti si sono divertiti a mettere in rete quelle che pensavano fossero sue bugie dette in campagna elettorale. Non ha voluto neanche incontrarli. I suoi studenti lo apprezzano, lo stimano, lo seguono, ma non lo amano. È ateo o almeno agnostico e quando gli hanno consigliato di andare a far visita al cardinal Bagnasco (che tra l’altro preferiva lui al suo rivale Musso) ha risposto: «In ginocchio non ci andrò mai». Anche per il look lo hanno criticato: quel maglioncino blu indossato sempre dovunque comunque non piaceva («E chi sei? Madre Teresa di Calcutta o Marchionne?»). Poi s’è messo anche la giacca. I maligni: rispolverata quella del matrimonio. «Sarà anche antipatico, è aristocratico, ma prende l’autobus — dice Marco Salotti, docente di Storia del cinema all’università di Genova —. È un vero storico che ha applicato la sua anima scientifica al Ponente della città, dove si faceva la storia imprenditoriale e operaia. Aristocratico nelle origini e intellettualmente, ma capace da marchese rosso com’era il padre di capire e raccontare l’aristocrazia operaia di Genova». «L’ho visto all’opera in consiglio d’amministrazione — dice Marco Desiderato, vecchia volpe della politica non solo genovese —. Non sarà stato un simpaticone, ma non sbagliava un intervento». Dopo il bilancio del Comune (che farlo quadrare non sarà un’impresa facile) Doria dovrà occuparsi del Porto e dei suoi mille problemi. Sul sito La Pilotina, che di questo si occupa, è affiorata qualche vena di antipatia perché il nuovo sindaco, prima di essere sindaco, non s’è pronunciato in maniera esplicita. «È vero — dice Tirreno Bianchi, numero uno della compagnia dei carbonai-camalli Pietro Chiesa — ma bisogna tener conto che è fatto così: non è capace di parlare di una cosa se prima non l’ha studiata. Aspettiamo...».
Su una questione che sta molto a cuore ai genovesi è stato furbissimo: parliamo di calcio. La rivalità tra Genoa e Sampdoria è talmente forte che ti può far perdere dei voti. E lui, che poi del calcio non gliene importa più di tanto, lui che fatto pallanuoto e boxe (non a caso la nobile arte), ha fatto finta di essere tifoso della Juve. Ieri ha festeggiato con i suoi collaboratori — tutti volontari, per la campagna elettorale ha speso meno che a comprare una Panda — che stappavano bottiglie di Prosecco della Valdobbiadene (4 euro e 90 a bottiglia) e poi se n’è andato nella sua casa di diciassette virgola cinque vani (a Genova contano anche i mezzi vani) nella Via Aurea, quella che piaceva tanto a Rubens, con un pensiero in testa: devo mettere a posto questo belin di bilancio...
Francesco Cevasco