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 2012  maggio 22 Martedì calendario

BERTOLUCCI E GLI ULTIMI IMPERATORI

Non è necessario scappare. Basta stare in casa quando tutti gli altri escono”. E graffiare, di rivoluzione in rivoluzione, ingannando la volgare dissolvenza delle stagioni, la linea della vita, il prima e il dopo. Bernardo Bertolucci è un uomo fedele. Alle idee danzate come fossero un ultimo tango e ai viaggi del tempo immobile che per magia lo proiettano sempre sullo stesso schermo. Torna a Cannes. Partì da qui 48 anni fa. Nel 2011, sulla Croisette, sanando un’ingiustizia prolungata, De Niro gli consegnò la Palma d’oro alla carriera. E BB, come lo chiamano gli amici giocando di ellissi con un’altra diva, si presentò in sedia a rotelle, annegando il dolore nei laghi dell’autoironia: “Avrei bisogno di un restauro anch’io” e la celebrazione, nel realismo: “È un premio di consolazione”.
NEL 2007 traversò un calvario medico diverso, ma simile a quello raccontato da Moretti in Caro Diario. Era un’ernia del disco, venne operata male, lo costrinse a letto per più di dodici mesi. Dopo la rabbia, anche cupa, la depressione e il desiderio dell’oblìo, Bertolucci si è rialzato. Ha imparato a dividere lo spazio con la menomazione. A non cercare spiegazioni. A dare un nome nuovo alle cose: “La mia sedia elettrica”. A ritrovare la voglia di lavorare. L’ultimo film, presentato oggi fuori concorso, è quanto di più lontano dalle sue visioni abbia mai pensato di girare. Tratto da Io e te di Niccolò Ammaniti e prodotto a costi bassi dal capace duo Gianani-Mieli, racconta la claustrofobica educazione sentimentale di due fratelli (nella finzione 14 e 24 anni) in cui, scorgere la metafora di un nuovo inizio anche per Bertolucci, non è difficile . Della magnificenza viscontiana de L’ultimo imperatore e delle sue 20.000 comparse è rimasta solo la filosofia. E Bernardo, rivolto ai suoi esordienti chiusi in cantina a cercare la chiave della comprensione dell’età più acerba, sembra Peter O’Toole dentro la città proibita: “Testa alta e guardare sempre avanti”. Dirlo a Jacopo Olmo Antinori e alla fidiaca Tea Falco è come ripeterlo a se stesso e anche se non pioveranno Oscar e l’ora della proiezione, le 4 del pomeriggio , è uno sgarbo che il Festival poteva evitare, al maestro ridiventato alunno va bene così. Succede quando pensavi fosse tutto perduto. Accade quando la fiamma, in mezzo al vento, non muore. Dare l’azione in spazi angusti, e a “45 secondi” da casa sua, ascoltare Bowie cantare in italiano, muoversi con difficoltà, sperimentare il digitale. Guardare in alto, se serve, modulando anche le note di un atavico ateismo perché quando maledici troppo a lungo e ti annoi , all’improvviso, anche la voglia di urlare grazie equivale a un esorcismo: “Compiere l’impresa è stato un miracolo”. Interpretare il romanzo e piegarlo.
ANCHE SE non c’è scrittore che possa accettare il compromesso: “Confessai a Moravia che avrei dovuto tradirlo per essere davvero fedele al suo conformista. Quando l’ ho detto ad Ammaniti per Io e te, sul volto è comparsa una smorfia impercettibile”. Tutto secondario adesso, perché l’ultima volta di Bertolucci sul set (letti a tre piazze, barricate, sesso e sogni da ’68 in ritardo) era stato per The Dreamers, quasi 10 anni fa. Chi lo frequenta giura che sia tornato ad affilare narrazioni crudeli, a mettere in fila aneddoti meno fluviali di un’epoca in cui l’orizzonte pareva eterno, ma ricchi. Precisi. A riscoprire la generosità di sguardo (i ragazzi, la speranza, i temi di Bernardo) che le ferite del corpo avevano silenziato. Per tre anni aveva vissuto al riparo da curiosità e bugie fatte filtrare ad arte, a iniziare da quelle imperdonabili. Sclerosi multipla. Poi a New York, celebrato a fine 2010 dalle colonne della sua parabola professionale (Jeremy Thomas, Malkovich, Debra Ginger, De Niro) e accolto dal Moma con meritati allori, la svolta. L’umore che muta. La sensazione dell’affetto che agita anche i cuori atrofizzati. Bernardo ha ripreso a divertirsi. A riadattare con particolari sempre nuovi e ghigno sottile, le descrizioni di Robert Bresson chiamato a Roma da Di-no De Laurentiis e impegnato a farlo impazzire. Dino avrebbe voluto affidargli un episodio della Bibbia di Houston. Per la sua Arca, Bresson pretendeva coppie di animali africani tra l’introvabile e il mitologico. A fine ricerca, il produttore gli chiese se fosse contento e l’altro laconico: “Molto, tanto di tutto questo non vedrai che ombre sulla sabbia”. Bertolucci ha saputo lasciarle con rara originalità.
TUTTA la sua corsa ha rappresentato una partita a scacchi con il rischio. Un antidoto al tramonto. Ieri a Cannes, mentre il ministro della Cultura francese premiava Moretti, Resnais festeggiava in gara i suoi 90, si annunciava il nuovo Sorrentino e Ken Loach beveva tè in un bar come un qualunque studente di cinema, si rimpiangeva Kubrick in Room 237, un bel documentario passato alla Quinzaine. Tra le loro ombre, dalla terrazza del suo albergo, Bertolucci era al suo posto. Guardando nei ricordi, osservando il mare. Senza paragoni. In una barca più piccola di ieri. Le onde del destino, quiete, apparentemente tranquille.