Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 22 Martedì calendario

COLM TÓIBÍN: LA LETTERATURA?

Serve a uccidere la madre di Il romanzo come resa dei conti in famiglia.
«Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita», diceva il poeta polacco Czeslaw Milosz. E che non fosse soltanto una battuta, lo dimostra lo scrittore irlandese Colm Tóibín col suo libro uscito in Gran Bretagna, che dietro l’irresistibile titolo New ways to kill your mother, indica tra i «nuovi modi di uccidere una madre» — o un padre, o dei figli, secondo gli scrittori e i casi — quello, innocente solo agli occhi degli ingenui, di prendere carta e penna e darsi alla letteratura.
Mai letta frase più vera di questa. Ne son rimasta folgorata.
In una conversazione che abbiamo avuto tempo fa da qualche parte (Tóibín è forse il più cosmopolita degli scrittori contemporanei, sempre in movimento tra Dublino, dove è nato e vive parte dell’anno, New York e Manchester, dove ha insegnato e insegna creative writing, e, tra gli altri posti dove lo portano le amicizie e i festival letterari, la Toscana), l’autore del super premiato romanzo The Master (Fazi) raccontava che a ogni nuovo libro sua madre gli scriveva una lettera piuttosto seria soffermandosi sullo stile, per evitare di toccare i contenuti che trovava un po’ tristi e troppo personali. «Poi un giorno disse che avrebbe scritto lei stessa un libro suo. E lo disse in un modo che faceva sembrare un libro un’arma».
Forse la signora Tóibín, che aveva dovuto interrompere gli studi a quattordici anni, ma aveva continuato a scrivere poesie, la sapeva semplicemente lunga, tanto quanto Milosz, e Borges, e Naipaul, e Beckett e Henry James e James Baldwin e John Cheever e W.B. Yeats e Tennesse Williams e tutti gli altri romanzieri, poeti o drammaturghi a cui Tóibín ha dedicato questi saggi apparsi in buona parte sulla «New York Review of books» e sulla «London Review of books». Ma il rapporto tra la famiglia e lo scrittore, ci spiega in queste pagine Tóibín, essendo strettamente legato ai motivi che lo portano a scrivere, non si esaurisce al tradimento: è più complesso, e più interessante.
In primo luogo c’è la questione dell’uovo e la gallina: è l’infelicità familiare a fare lo scrittore o lo scrittore a fare l’infelicità familiare? La risposta di Tóibín è che al di là del dubbio vi è la certezza che il modo in cui gli autori si rapportano alle loro famiglie vi è una chiave d’interpretazione del loro lavoro. E poi ci sono le similitudini, i percorsi paralleli. C’è chi scrive, per esempio, perché la generazione precedente non ha potuto farlo — come nel caso di Tóibín stesso, figlio di gente per cui la cultura era in primo luogo un mezzo per trovare un lavoro «al coperto, con le ferie e la liquidazione» e soprattutto per non essere costretti a emigrare dall’Irlanda.
Ma c’è anche chi scrive per vendicare le aspirazioni frustrate dei padri, come V.S. Naipaul o come il padre di Borges, che un romanzo lo pubblicò, ma a proprie spese. Ed è delizioso scoprire che sia Naipaul che Borges vendicarono i fallimenti dei propri padri prendendo i loro scritti e riscrivendoli con successo: il primo nel romanzo che gli ha dato la fama, Una casa per Mister Biswas, e il secondo nel racconto Il congresso.
Ma non tutti gli scrittori sono così «generosi». Il poeta irlandese W.B. Yeats, per esempio, che era figlio di un uomo petulante e bisognoso di attenzione fino all’esasperazione, un uomo che si era auto esiliato a New York per non essere influenzato dal figlio, sparò un siluro attraverso l’Atlantico quando scrisse che l’opera teatrale che il padre aveva terminato dopo infiniti anni di lavoro non valeva nulla: «Hai scelto un soggetto molto difficile e la più ardua delle forme di scrittura, per cui era prevedibile che questo sarebbe stato il meno buono dei tuoi scritti… ci vuole una vita per imparare a scrivere per il teatro». Questo a un uomo di ottant’anni.
E le madri? Le madri sono un problema. Anzi, sono il problema maggiore. Della sua Beckett diceva: «Non le auguro nulla, né di bene né di male. Io sono il prodotto del suo affetto selvaggio, ed è un bene che uno di noi accetti finalmente che non desidero più vederla né sentirla né avere sue notizie». Quanto alle madri nella letteratura, Tóibín ci fa notare che nei grandi romanzi dell’800 (Jane Austen, Henry James) semplicemente non ci sono, in quanto muoiono di parto e vengono sostituite dalle zie, molto più facili da gestire per lo scrittore, e da «sessualizzare» con beneficio della trama.
Questa necessità di fare fuori le madri prima che inquinino un testo, «è un’esigenza del romanzo, non del romanziere», scrive Tóibín. Il quale si avventura a sostenere, in modo evidentemente provocatorio, che «il romanzo non è una favola morale o un’esplorazione del ruolo dell’individuo nella società; e non sta a noi amare o detestare i personaggi di una fiction, o giudicare il loro valore o usarli come modello per imparare a vivere. Queste sono cose che possiamo fare con la gente reale o, nel caso, con i personaggi storici, che sono carne da banchetto per moralisti. Un romanzo è un disegno, è un insieme di strategie, ed è in qualche modo più vicino alla matematica o alla fisica dei quanti che all’etica o alla sociologia».
Un disegno un po’ particolare, viene voglia di commentare: che risponde, sì, a equilibri e simmetrie, ma richiede soprattutto sacrifici umani.