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 2012  maggio 10 Giovedì calendario

PERCHÉ DIRE «SPENDING REVIEW» INVECE DI REVISIONE DELLA SPESA

«Spending review» è un binomio formato da due parole di origine latina. Con un lampo di genio, propongo che esso venga tradotto in «revisione della spesa», e che ne vengano informati — con un rapido corso di aggiornamento — tutti i giornalisti. Quando leggeremo nei dizionari che la parola italiano deriva dall’inglese «italian»?
Luigi Lunari
luigi.lunari@libero.it
Caro Lunari, come darle torto? Di tutte le espressioni inglesi approdate senza traduzione nella lingua italiana, «spending review» è quella che può essere più facilmente tradotta. Eppure vi è una irrazionale legge linguistica che rende pressoché irresistibile il fenomeno lamentato nella sua lettera.
Ogni importante novità nella storia delle società umane si diffonde attraverso il mondo nella lingua del Paese che ne è responsabile. Quando i genovesi, i lombardi e i fiorentini erano maestri nelle arti del commercio e delle transazioni finanziarie, le parole inventate dai loro mercanti divennero rapidamente, anche se in forme storpiate, di uso comune. Quando, fra il Quattrocento e il Cinquecento, l’arte italiana godette di una grande reputazione europea, il lessico dei suoi pittori, scultori e architetti fu immediatamente adottato da tutti gli ambienti artistici del continente. Lo stesso accadde per la musica. Non è difficile tradurre «allegro ma non troppo» o «moderato cantabile» in una qualsiasi lingua europea. Ma il fascino della musica italiana ebbe l’effetto di rendere seducenti anche le parole usate dai compositori, dagli orchestranti e dai fabbricanti di strumenti musicali.
Più tardi, quando la Francia divenne maestra di costumi civili e mondani, la lingua italiana corse persino il rischio di essere sommersa da un’ondata di francesismi. Sin dall’inizio della rivoluzione industriale, tuttavia, il laboratorio linguistico europeo cominciò ad abbandonare la Francia per trasferirsi nell’Europa centro-settentrionale, prima in Gran Bretagna poi in Germania. Anche il primato militare ha prodotto grandi mutazioni linguistiche. Le armi hanno parlato italiano e spagnolo nel Quattrocento e nel Cinquecento, francese nel Seicento e nel Settecento, inglese e tedesco fra l’Ottocento e il Novecento. Oggi parlano un inglese «made in Usa». Quando un generale spagnolo chiacchiera con un generale italiano, i due ufficiali non hanno bisogno, per intendersi, di un interprete. Ma se devono programmare una esercitazione congiunta, la lingua è l’inglese.
La finanza oggi, caro Lunari, parla angloamericano. I nuovi prodotti e le nuove formule vengono inventati nel mezzo dell’Atlantico, tra la City e Wall Street, e sono immediatamente battezzati con parole inglesi spesso derivate dal latino o dal greco. Noi dovremmo tradurle o, quanto meno, adattarle alla lingua italiana. Ma non è facile farlo perché l’intera Europa è ormai un continente bilingue dove le classi dirigenti parlano sempre più frequentemente due lingue: la propria e l’inglese. È un bilinguismo zoppo che attribuisce un considerevole vantaggio a chi nasce con l’inglese in bocca. Ma questa è la realtà e i fatti, come è noto, hanno la testa dura.
Sergio Romano