Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  maggio 08 Domenica calendario

ITALIA BABELE DELLA BUROCRAZIA


Immaginate di essere in un Comune e di dover informare via Internet che il cimitero chiuderà per un giorno dopo il temporale che lo ha riempito di rami e foglie. Se non avete anco­ra indossato la giacca del funzio­nario, vi affidereste a una man­ciata di parole e a una frase alla portata di tutti. Invece, una volta seduti davanti alla scrivania, il vocabolario e lo stile cambiano d’incanto. Fino quasi a rasentare l’assurdo. Come ha annotato un’amministrazione comunale sul suo sito: «A causa di un fortu­nale abbattutosi sulla città, sia­mo con la presente a comuni­care che nella giornata odier­na il cimitero urbano re­sterà chiuso per effettuare le pulizie delle ramaglie». Benvenuti nel burocra­tese che domina fra gli enti pubblici e che fa lambiccare il cervello ai cittadini. Un idioma che non è tanto per addetti ai lavori, quanto al limite del grottesco se è vero che sul web un munici­pio può scrivere fortuna­le al posto di bufera o ra­maglie invece di arbusti.
E che dire della formula giornata odierna che po­trebbe essere sostituita con il comunissimo oggi o del ri­dondante con la presente. Un’eccezione? «Macché è la regola. Nella pubblica ammi­nistrazione l’uso della lingua è spesso farraginoso, scorretto e a volte incompleto», sentenzia il giurista del Centro nazio­nale delle ricerche (Cnr), Pietro Mercatali. Cambia poco se abbiamo fra le mani una delibera di giunta, un cartello af­fisso in ospedale o una lettera che l’asilo comunale invia ai ge­nitori. «Si predilige l’ampolloso perché si vuole imitare la lingua giuridica. Ma una cosa è dialoga­re fra avvocati, un’altra è comu­nicare con la gente», sostengono le ricercatrici dell’università di Firenze e collaboratrici dell’Ac­cademia della Crusca, Angela Frati e Stefania Iannizzotto.
Ecco perché, lungo le sponde dell’Arno, proprio la Crusca e il Cnr – con il suo Istituto di teoria e tecniche dell’informazione giu­ridica – hanno fondato un’asso­ciazione che vuol aiutare i dipen­denti pubblici a «risciacquare» il loro italiano. L’hanno chiamata «Aquaa», quasi che la sigla voglia essere un condensato di errori si­mili a quelli che si fanno negli uf­fici statali o negli enti locali. In­vece l’acronimo sta per «Associa­zione per la qualità degli atti am­ministrativi».
Nata da appena due mesi, l’ini­ziativa è figlia della «Guida alla redazione degli atti amministra­tivi » che le due istituzioni hanno elaborato insieme con un gruppo di funzionari pubblici. Un vade­mecum che è già approdato sui tavoli di Comuni e Regioni anche grazie alle lezioni e ai corsi orga­nizzati da «Aquaa» in tutta Italia.
«Un primo carattere della lingua da uffici pubblici – spiega Frati – è il ricorso a parole inutili che hanno l’unica esigenza di innal­zare il tono per dare autorevolez­za ai contenuti». Fra i corridoi di distretto sanitario tutto è se­veramente vietato. «Ma se un comportamento è proibito, può esserlo in maniera lieve?», si chiedono con ironia alla Crusca.
E nei moduli che si ritirano alla posta o dai vigili urbani si legge che il documen­to va debitamen­te firmato: e che cosa aggiunge quell’avverbio alla richiesta di un autografo?
Ai burocrati piacciono anche i vocaboli astratti («e spesso inu­tilmente lunghi», afferma Ianniz­zotto). L’alternativa è ricorre a si­nonimi semplici che non stravol­gono il significato. «Ad esempio consigliamo di non usare proble­matica al posto di problema o nominativo al posto di nome», avvertono le due linguiste di Fi­renze.
Sempre sul fronte lessicale, la pubblica amministrazione si trincera di solito dietro la scusa dei tecnicismi. «Ma da giurista posso affermare che un linguag­gio specialistico, finalizzato alla precisione, non può sfociare nell’indecifrabile», dichiara Mer­catali. Non è un caso che Frati e Iannizzotto mettano al bando i «tecnicismi collaterali», vale a di­re quelli che in fondo risultano i­nutili. Così la locuzione condizio­ne ostativa può essere rimpiazza­ta da impedimento; procedere all’escussione da interrogare; o conferimento da consegna . Non bisogna neppure esagerare con i termini stranieri. «Perché parlare di mission istituzionale quando sarebbe sufficiente scrivere fina­unlità? Oppure di meeting se si fa riferimento a una riunione?», se­gnala Frati. Però la Crusca non vuol trasformarsi in un censore.
«Le parole importate arricchisco­no la nostra lingua – rileva Ian­nizzotto – e alcune sono ormai insostituibili. Penso a welfare».
Curiosa è anche la folgorazione per la frase negativa. Il progetto non è stato ammesso viene consi­derato più chic rispetto a il pro­getto è stato escluso . E poi si assi­ste alla passione per la nomina­­lizzazione, ossia per quell’opera­zione linguistica che consiste nel preferire il nome al verbo. Quan­te volte abbiamo trovato che il pagamento si effettua allo spor­tello?
«E invece sarebbe opportu­no riportare Si paga allo sportello », sostengono le ricerca­trici toscane. Occhio anche ad abbreviazioni o sigle. «Alcune so­no entrate nel vocabolario di ba­se, come Onu, Inps o Iva, ma al­tre lasciano interdetti – ammette la Crusca –. Sicuramente non è accessibile a tutti l’acronimo Ao che sta per azienda ospedaliera».
Non va meglio se si guarda al­l’impostazione delle frasi. «Con il pretesto di giustificare una di­sposizione – afferma il dirigente del Cnr – vengono formati atti troppo articolati. Si comincia con visto , premesso o considerato e soltanto nell’ultima parte si presenta la decisione. Basterebbe rovesciare la struttura per rende­re il documento più comunicati­vo senza che la sua efficacia cambi». Non solo. «In molti casi – aggiungono le linguiste di Firen­ze – i periodi sono contorti e gli stessi concetti vengono ripetuti più volte». Da qui il suggerimen­to di ripartire dalla regola sogget­to- verbo-complemento oggetto che potrebbe adottare anche quel sindaco quando ha fatto sa­pere che «da oggi e sino all’ulti­mo giorno del corrente mese, so­no depositate nella segreteria co­munale, ai sensi del testo unico 20 marzo 1967, n. 223, le liste e­lettorali rettificate» (meglio posi­zionare all’inizio che «le liste e­lettorali rettificate sono deposi­tate » mettendo di seguito il re­sto). L’effetto più perverso che pro­duce questa babele linguistica è di sfornare testi per gli ’Azzec­ca- garbugli’ di turno. «L’uso del burocratese – osserva Mercatali – si traduce in una libertà di in­terpretazione che rappresenta l’opposto di quanto è nelle in­tenzioni degli uffici pubblici». Scherzi di un italiano contorto che potrebbe tornare a essere comprensibile seguendo pochi criteri. La Crusca ne indica quattro: ordine, semplicità, es­senzialità e leggibilità. «Un testo è ordinato se le informazioni ri­spettano una coerenza gerarchi­ca, se i destinatari sono ben de­finiti, se non si mescolano in modo casuale i concetti – racco­mandano le due ricercatrici –. È essenziale se non include troppi aggettivi e avverbi, se non ha pa­role ricercate o solenni, se non impiega frasi prolisse. È sempli­ce se usa vocaboli comuni, brevi e di origine italiana. Ed è leggi­bile se ha una punteggiatura e un’organizzazione grafica che ne facilitano l’approccio». Saprà la burocrazia convertirsi alla chiarezza?