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 2012  aprile 29 Domenica calendario

PADRONI E GRANDI MANAGER NEL CAPITALISMO DI DEL VECCHIO

Con l’intervista che ha rilasciato a Daniele Manca per il Corriere, Leonardo Del Vecchio ha messo i piedi nel piatto dei poteri forti. Ne ha fustigato il vizio di cercare nella finanza la scorciatoia per il successo, facendo nomi e cognomi con la faccia dell’ex Martinitt arrivato in vetta con le proprie gambe. E ha chiesto le dimissioni dell’amministratore delegato delle Generali, Giovanni Perissinotto, che «era il miglior assicuratore d’Italia e forse d’Europa», ma poi ha usato i soldi dei risparmiatori per entrare in Telecom, nella banca russa Vtb o per portare la compagnia del Leone nella joint-venture con l’oligarca ceco Petr Kellner. Come certi quadri dipinti di getto, qualche pennellata può essere andata oltre il disegno. Ma questo si vede da vicino. Da lontano, l’insieme deve far meditare.
Nell’Italia delle piramidi societarie e dei veicoli finanziari, dove i soliti furbi, metropolitani e non, esercitano il potere con i soldi degli altri, il signor Luxottica rivendica la separazione tra le risorse dell’azienda e gli investimenti personali. L’impero degli occhiali sta in una tasca; Generali, Unicredit e Foncière des Régions stanno in un’altra tasca, ma di un altro paio di pantaloni. Quanti sono i suoi colleghi che usano le risorse delle aziende per acquistare partecipazioni in banche, giornali, assicurazioni e altre imprese così da farsi una corona di solidarietà personale? Replicando a Del Vecchio, Perissinotto ha difeso su tutta la linea le sue scelte. Ed era suo diritto farlo, e fors’anche suo dovere. Ha aggiunto che le Generali dovrebbero uscire dal patto di sindacato di Rcs Mediagroup. Una posizione del tutto legittima.
Il signor Luxottica ha aperto il fuoco su Generali solo adesso, perché non voleva confondere le sue censure con quelle, nel merito assai simili, di Cesare Geronzi, il presidente contestato dal management. Nel 2010, preferì uscire dal consiglio di Generali piuttosto che essere iscritto d’autorità al partito geronziano. Quella battaglia di potere, per lui, non contava nulla. Resta che alcune sue riserve riecheggiano nelle confidenze di altri esponenti della compagnia, da Lorenzo Pelliccioli a Francesco Gaetano Caltagirone, dagli uomini della Fondazione Crt ad Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, il maggiore azionista del Leone.
Da padrone a padrone, Del Vecchio ricorda a Diego Della Valle, gran sostenitore di Perissinotto, che il rendimento di Generali è assai inferiore a quello di Allianz. E con malizia, dopo aver annunciato di essere salito al 3%, sottolinea come il signor Tod’s parli di Generali senza averne un’azione, lui che delegittima gli amministratori senza capitali propri investiti.
Questo genere di duelli padronali va preso con le pinze. Nel mondo esistono tante forme di impresa con diverse forme di proprietà, tutte degne di rappresentanza se trasparenti. E però al tema del governo dell’impresa Del Vecchio porta un buon argomento. Poco padronale.
I manager, si sa, ambiscono al potere assoluto sulla base della propria competenza, ma in tal modo fanno correre a tutti gli altri portatori d’interessi nella società il rischio dei loro errori, tanto più gravi se ripetuti in assenza di controlli. D’altra parte, i soci eccellenti e gli amministratori possono cedere a scambi impropri: il voto in consiglio in cambio di affari e consulenze pilotati a loro favore dal management. Ecco, Del Vecchio non teorizza la corporate governance come farebbe Lord Cadbury, ma avverte che il suo Andrea Guerra ha fatto crescere per miliardi il gruppo di Agordo riferendo sempre in consiglio anche le spese di pochi milioni, mentre in Generali il top manager aveva poteri di firma fino a 300 milioni di euro, poi ridotti a 100, cifra sempre elevatissima.
Del Vecchio sferza le banche. Pur avendo lavorato con Mediobanca, non vede bene il salvataggio di Fonsai e si chiede perché Ligresti abbia avuto tanto credito. Ricorda con nostalgia i suoi rapporti con Lucio Rondelli, il presidente del Credito Italiano, progenitore di Unicredit, che sedeva anche nel board di Luxottica. Ma Unicredit sostenne anche la grande acquisizione di Rayban. Nell’esecutivo straordinario si sorrise: «Del Vecchio ha firmato l’assegno e adesso a noi tocca di coprirlo». E i soldi arrivarono. Al di là delle regole sulle parti correlate e degli articoli 36 contro il cumulo delle cariche, la differenza la fanno le persone.
Del Vecchio sostiene che Alessandro Profumo gli si è trasformato sotto gli occhi in un banchiere prono alla finanza, alle fusioni. Ma, ricordiamo noi, i privati non volevano la fusione con le Casse di risparmio perché avrebbero rischiato la ripubblicizzazione, causa la presenza poi delle fondazioni. E avevano torto. E non volevano nemmeno l’acquisizione della Pekao in Polonia, il miglior pezzo del gruppo. Nessuno le indovina tutte. Ma la sferza del cavalier Del Vecchio fa sempre bene.
Esempio di onestà intellettuale è il giudizio su Marco Tronchetti Provera. Prima ha salvato la Pirelli dal disastro della fallita scalata alla Continental. Poi l’ha rovinata entrando in Telecom. Infine, uscito dalle telecomunicazioni, l’ha riportata all’onor del mondo. «Con Tronchetti ho avuto parecchio da ridire», aggiunge. In effetti, uscì addirittura dal consiglio di Unicredit quando la banca entro, assieme a Intesa, nel capitale della scatola pirelliana che possedeva Telecom. Ma quel che conta è che il caso Pirelli (e altri) gli servono per dire, contro i postindustrialisti, che l’Italia manifatturiera ha un futuro. Purché gli imprenditori non si distraggano. E purché l’Italia dia prova di serietà nel governo della cosa pubblica. Del Vecchio sostiene il governo Monti e il ministro Fornero, poi avverte che in Luxottica solo uno dei 62 mila dipendenti sarebbe stato licenziato senza l’articolo 18. Una pennellata fuori schema, utile anch’essa.
Massimo Mucchetti