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 2012  marzo 21 Mercoledì calendario

STEINBECK CONTRO GLI EDITOR

Poco prima della morte, lo scrittore americano John Steinbeck pubblicò Journal of a Novel: The East of Eden Letters , una raccolta di lettere, inizialmente non destinate alla pubblicazione, che il romanziere scrisse fra il 29 gennaio e il 31 ottobre del 1951. Il referente di queste lettere è l’amico ed editor Pascal Covici. In esse Steinbeck confessa i propri travagli nella stesura di quello che molti critici – ed egli stesso – hanno considerato il suo romanzo più importante, La valle dell’Eden.
Da questa raccolta è tratta la lettera inedita che pubblichiamo per gentile concessione della rivista «Satisfiction», diretta da Gian Paolo Serino, che esce gratuitamente in veste cartacea ma anche in continuo aggiornamento sul sito www.satisfiction.me.
Dal prossimo numero la rivista lancia una nuova iniziativa: «l’inedito on demand». Ovvero, in base alle richieste dei lettori la rivista s’impegna entro due mesi a cercare e a pubblicare i 10 inediti di scrittori più richiesti, continuando un’opera che somma già quelli di Kerouac, Salinger, Stevenson, Nabokov, Vila-Matas, Gary, Dickens, Fitzgerald, Colette, Genet, Céline, Foucault e altri.
Questo di Steinbeck è un inedito curioso: racconta le ottusità del sistema editoriale che valuta i testi degli autori e vorrebbe uniformarli a una logica che quasi sempre uccide lo stile e la qualità di scrittura. È un problema che si è molto aggravato oggi, quando l’editing tende spesso a una normalizzazione dei linguaggi, delle costruzioni narrative e dei valori estetici di un’opera piegandola solo ai parametri commerciali oppure a una falsa idea di comunicazione.
Nel lavorare alla lunga storia delle due famiglie dei Trask e degli Hamilton, e del paesaggio che li circonda – la Salinas Valley – Steinbeck sapeva di essere giunto a un punto chiave della propria carriera: tanto da confessare alla moglie che tutti i suoi libri non erano serviti ad altro che a preparare East of Eden. In questa lettera emerge la posizione di uno scrittore che parla del lettore e lo vede uguale a se stesso – non quella figura irreale disegnata da editor e librai, che fanno spesso muro tra chi scrive e racconta storie e chi aspetta di sentirsele raccontare. La cura e la traduzione del testo sono di Nicola Manuppelli. (R.A.)

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«NON FATE DEL LETTORE UNO STUPIDO» DI JOHN STEINBECK -

New York, 1952
caro Pat, ho deciso per questo mio li­bro, La valle dell’Eden, di scri­vere una dedica, un prologo, una si­nossi, una apologia, un epilogo e for­se anche un epitaffio tutto insieme. La dedica è per te, con tutta l’ammi­razione e l’affetto che sono nati da questa nostra particolarmente be­nedetta frequentazione che dura da molti anni. Questo libro è dedicato a te perché tu sei stato parte della sua nascita e della sua crescita. Co­me sai, il prologo è l’ultima cosa che viene scritta ma viene messo al pri­mo posto nel libro per giustificarne le carenze e chiedere al lettore di es­sere benevolo. Ma un prologo, per uno scrittore, è anche un modo di dire addio al proprio libro. Per anni lui e il suo libro hanno convissuto insieme, sono stati amici o amari ne­mici, ma vicini in un modo che solo l’amore e la lotta possono permet­tere. Poi, improvvisamente, il libro è pronto. È una specie di morte. E il prologo è il requiem. Miguel de Cer­vantes ha inventato il romanzo mo­derno e con il suo Don Chisciotte ne ha segnato le vette, alte e luminose. Nel prologo egli ha spiegato in mo­do migliore ciò che gli scrittori pro­vano – la gioia e il terrore. «Sfaccen­dato lettore», ha scritto Cervantes, «potrai credermi senza che te ne fac­cia giuramento, che io vorrei che questo mio libro, in quanto figlio del mio intelletto, fosse il più bello, il più galante e il più ragionevole che si po­tesse mai immaginare; ma non mi fu concesso di alterare l’ordine del­la natura secondo la quale ogni co­sa produce cose simili a sé». La stes­sa cosa è capitata a me, Pat. Anche se alcune volte ho pensato di avere il fuoco nelle mani e di diffondere splendore sulla pagina - non ho mai perso il peso della mia goffaggine, della mia ignoranza, della mia dolo­rosa incapacità. Un libro è come un uomo intelligente e stupido, corag­gioso e vile, bello e brutto. Per ogni pensiero che fiorisce ci sarà una pa­gina simile a un bastardino bagnato e rognoso, e per ogni volo acrobati­co un colpetto sull’ala a ricordarci che le nostre piume di cera non pos­sono avvicinarsi troppo al sole. Be­ne, allora il libro è fatto. Non può es­sere più virtuoso. Lo scrittore vor­rebbe gridare, «Ridatemelo indietro! Lasciatemelo riscrivere, o meglio la­sciatemelo bruciare! Non fatelo u­scire, nel freddo nemico, in queste condizioni». Come sai meglio di chiunque altro, Pat, il libro non pas­sa dallo scrittore direttamente nelle mani del lettore. Prima finisce nelle grinfie degli editor, delle case editri­ci, dei critici, dei lettori di bozze, de­gli addetti al reparto vendite. È pre­so a calci e tagliato e vivisezionato. E il padre insanguinato siede al banco della difesa.
EDITOR: «Il libro è privo di equili­brio. Il lettore si aspetta una cosa e tu gli dai qualcos’altro. Hai scritto due libri e li hai messi insieme. Il let­tore non capirà».
SCRITTORE: «No, signore. Devono stare insieme. Ho scritto su una so­la famiglia e ho utilizzato delle sto­rie su un’altra famiglia, certo, ma co­me contrappunto, come intervallo, come contrasto in ritmo e colore».
EDITOR: «Il lettore non capirà. Quel­lo che tu chiami contrappunto ser­ve solo a rallentare il libro».
SCRITTORE: «Deve essere rallenta­to, altrimenti come fa uno a sapere quando va veloce?».
EDITOR: «Hai interrotto il libro per metterti a fare discussioni su Dio sa cosa».
SCRITTORE: «Sì, certo, l’ho fatto. Non so perché. Ne avevo voglia, tut­to qui. Forse mi sbagliavo».
UFFICIO VENDITE: «Il libro è trop­po lungo. I costi crescono. Dovremo far pagare cinque dollari a copia. La gente non lo comprerà a quella cifra. Non pagheranno cinque dollari».
SCRITTORE: «Il mio ultimo libro e­ra breve. E voi dicevate che la gente non avrebbe comprato un libro bre­ve ».
CORRETTORE DI BOZZE: «La se­quenza cronologica è piena di bu­chi. L’uso della grammatica non c’entra affatto con la lingua inglese. Nella pagina x c’è un uomo che cer­ca nel World Almanac le tariffe dei battelli a vapore. Ma non si trovano lì. Ho controllato. E il Capodanno Ci­nese è tutto sbagliato. I personaggi non hanno consistenza. Descrivi Li­za Hamilton in un modo e poi la fai agire in un modo diverso».
EDITOR: «Rendi Cathy troppo cupa. Il lettore non le crederà. E Sam Ha­milton troppo candido. Il lettore non gli crederà. E nessun irlandese ha mai parlato in quel modo».
SCRITTORE: «Mio nonno parlava in quel modo».
EDITOR: «Chi ci crederà?».
SECONDO EDITOR: «Nessun bam­bino ha mai parlato così».
SCRITTORE (Perdendo le staffe per non cadere nella disperazione): «Ac­cidenti. Questo è il mio libro. Farò parlare i bambini in qualsiasi modo voglio. Il mio libro parla del bene e del male. Magari il tema è riuscito. Lo volete pubblicare o no?».
EDITORI: «Lasciaci vedere se pos­siamo sistemarlo. Non ci vorrà mol­to lavoro. Vuoi che sia buono, non è vero? Per esempio il finale. Il lettore non lo capirà».
SCRITTORE: «E tu?»
EDITOR: «Io sì, ma il lettore no».
CORRETTORE DI BOZZE: «Mio Dio, come si fa a usare un participio in questo modo. Guarda a pagina x».

Ecco, Pat. Arrivi con una scato­la di gloria e te ne esci con una manciata di spazzatura ba­gnata. E da questo incontro ne e­merge un nuovo personaggio, che è il lettore.
Il lettore. È così stupido che non gli si può lasciare in mano uno spunto. È così intelligente che ti sorprende al minimo errore. Non compra libri brevi. Non compra libri lunghi. È un po’ un coglione, un po’ un genio, un po’ un orco. C’è più di un dubbio sul fatto che lui sappia leggere.
Beh, perdio, Pat, lui è proprio come me, non mi è estraneo affatto. Pren­derà dal mio libro ciò che sarà in gra­do di trovarci. L’ottuso otterrà ottu­sità e il lettore brillante ci potrà tro­vare cose che io nemmeno sapevo che ci fossero. E dato che lui è come me, spero che il mio libro possa pia­cergli abbastanza così che possa tro­varci qualcosa di interessante e in cui si riconosca e un po’ di bellezza, così come la si può trovare in un a­mico. Cervantes termina il suo pro­logo con una bella frase. Voglio u­sarla anch’io, Pat, come chiusura. E­gli dice al lettore: «Dio ti conservi in salute. E se possibile non ponga me in dimenticanza».