L’Espresso 30/6/2005, 30 giugno 2005
INTERVISTA A MONTI (TAGLIATA)
Sotto intervista intera e breve cronologia fino al 2005.
L’Espresso, giovedì 30 giugno 2005
Proporre un’intervista sentimentale a Mario Monti è un atto di presunzione che si paga quasi subito. L’uomo è cortese, disponibile, pronto a concedere più del solito notizie su di sé e giudizi sul mondo. Ma a condizione di guidare lui, se non gli argomenti, almeno lo stile della conversazione. E di essere seguito in quella dimensione più alta dove l’Italia si guarda con occhi europei, la politica quotidiana con il distacco del grande esperto internazionale, mentre il linguaggio vigila sulle sfumature e l’understatement è d’obbligo. Il Monti privato somiglia inoltre così tanto al Monti pubblico che è difficile separare il funzionario rigoroso dal marito devoto, l’economista dal padre di famiglia, il presidente della Bocconi dal tifoso del Milan. Ci proveremo con alterne fortune, scoprendo qua e là frammenti di passioni, piccole superstizioni e qualche peccato d’orgoglio.
L’ex commissario europeo alla concorrenza che si conquistò il nomignolo di Supermario multando Bill Gates per mezzo miliardo di euro e facendo saltare più volte i nervi a qualche capo di Stato, ci riceve nel grande studio dell’Università milanese che lo ha visto studente, professore, rettore e infine presidente, in un percorso di fedeltà che la dice lunga su di lui.[...]
Incarichi a parte, com’è il suo rapporto personale con Berlusconi?
«Di simpatia. Non abbiamo mai avuto difficoltà di dialogo nelle non numerose occasioni in cui ci siamo incontrati. È una persona di prorompente cordialità».
Non è facile immaginarla mentre, a tavola, ride alle barzellette del premier.
«Ma si sbaglia. Anche se sono incapace di ricordarle e di raccontarle, le barzellette mi piacciono. E Berlusconi ha una vera arte in questo genere. Se poi la mette in mostra con altri capi di governo, non so. Non è il mio girone».
Monti, lei ha fama di impassibilità, ma non risparmia sottotesti. L’ha imparato alla scuola dei gesuiti?
«Al Leone XIII di Milano, dove ho studiato per dieci anni, ho appreso semmai altre capacità. Se ne accorse una volta anche il cancelliere Schroeder che alla fine di un’estenuante trattativa in cui io non potevo concedere ciò che voleva, mi chiese: “Lei ha studiato dai gesuiti? Sì? Ah, ecco perché argomenta, argomenta, argomenta e non concede mai niente”».
Qui invece dovrà concederci un po’ di vita privata.
«Proviamo, ma non prometto niente».
Lei è sposato da quasi quarant’anni con la stessa donna. È stato anche il suo primo amore?
«Sì, e non intendo parlarne».
Perché no? In fondo lei è persona dalle molte monogamie.
«Questa è una definizione che mi piace. È vero: la Bocconi, l’Europa, il Corriere della Sera, sento il valore della continuità. Neanche Gianni Agnelli riuscì a convincermi a scrivere per La Stampa. Gli dissi: “Vedrà che verrà prima lei al Corriere”. E poco dopo infatti lo comprò».
Che figlio è stato, professore?
«Del tutto normale, cresciuto nel rispetto verso un padre direttore di banca con una schizzinosa distanza dalla politica e una madre che aveva la dote dell’allegria. Non ho ripreso da lei, purtroppo».
Non sembra triste.
«Ma non sono neanche allegro. Non ho il dono della convivialità splendente. Può immaginare quanti dinner speech ho dovuto fare in tutti questi anni e in tutti i Paesi del mondo. Ogni volta è stata una piccola fatica».
Ha intenzione di raccontare sessant’anni di sobrietà? Rintracci almeno un attimo di irrequietezza. Anche lei sarà stato adolescente.
«Un po’ tardivo, per la verità. Non ero precoce da nessun punto di vista. Studiavo, ero appassionato di ciclismo e passavo molte notti ad ascoltare la radio ad onde corte. L’ho fatto per anni».
Le serviva per evadere?
«No. È stato utile un po’ per conoscere le lingue e molto per capire il mondo. Ascoltavo trasmissioni dall’Australia, dai Paesi dell’Est e dall’Africa. Nel 1958 ho capito da parole in codice che era scoppiata la ribellione in Algeria. Nel 1960 ho sentito in diretta il discorso di insediamento di John Kennedy».
È nata lì la sua vocazione sovranazionale?
«In parte. Quando ho avuto 16 e 17 anni mio padre mi ha anche portato qualche settimana in Urss e poi negli Usa. Voleva che mia sorella ed io ci facessimo un’idea personale delle due potenze».
Funzionò?
«Sì, anche se mi procurò un piccolo infortunio con i gesuiti del mio liceo. Avevo apprezzato il sistema scolastico russo e lo avevo onestamente raccontato in un articolo per il giornalino Giovinezza nostra. Poco dopo mi arrivò una lettera del padre rettore: mi spiegava che aveva cestinato lo scritto perché avevo avuto un approccio ingenuo verso un sistema pericoloso sul piano etico. Lui aveva ragione, ma avevo ragione anch’io e strappai la lettera in un impeto di rabbia».
Ha visto che abbiamo scovato un piccolo gesto di ribellione. Continuiamo?
«Non credo che troverà altro».
Il suo primo incarico universitario è stato alla facoltà di Sociologia di Trento. Era il 1969 e molti suoi coetanei erano nel movimento. Lei partecipò?
«Ero un docente e mi comportavo come tale. Capo del movimento era Marco Boato e ricordo che il primo giorno lui e altri leader studenteschi, che davano del tu ai docenti, dissero quasi incidentalmente: “Ah, naturalmente faremo l’esame politico a ognuno di voi”. Quella notte non ho mica dormito».
Come andò l’esame?
«Non lo feci. E in fondo anche Trento è stata un’esperienza interessante. L’anno dopo mi spostai a Torino e in seguito alla mia amata Bocconi, che è stata la cosa più importante della mia vita professionale».
Professor Monti, lei crede in Dio?
«Sì, ma lo considero un fatto importante per me, non un elemento di identità pubblica».
Con i tempi che corrono questa è una grande risposta. Come si è schierato nel dibattito intorno alle radici cristiane dell’Europa?
«Non l’ho considerata una questione decisiva. Nelle Costituzioni le parti declaratorie sono importanti, ma il fatto che l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro garantisce forse la piena occupazione? Nell’Europa dei Trattati c’è già valore etico, non solo mercato. Lo ha capito anche la Conferenza episcopale polacca».
A cosa si riferisce?
«Alla visita che una delegazione presieduta dal cardinale Glemp fece a Bruxelles nel 1996. Volevano decidere quale posizione prendere per orientare il governo polacco sull’ingresso o meno nell’Unione. Pensavano che l’Europa fosse solo roba di mercato, monete e banche».
Non è così?
«È anche così, ma dietro quella moneta e quel mercato c’è la possibilità di ristabilire un rapporto eticamente corretto tra le generazioni successive. Io spiegavo il caso Italia dei decenni scorsi, Paese che si proclamava guidato da istanze etiche, cattoliche, marxiste o un misto di entrambe, ma che primeggiava nell’imbroglio sistematico verso i propri figli caricandoli di debiti prima ancora che nascessero».
A proposito di figli, lei ne ha due ormai adulti. Che padre ricorda di essere stato nella loro infanzia?
«Un padre non abbastanza presente, persino a sentir loro che, come tutti i ragazzi, potevano essere più infastiditi dall’eccesso di attenzioni che dall’assenza».
Siamo alla fine, professore, e mi viene in mente che un suo collaboratore avrebbe detto: «Sono di quelli che l’hanno visto ridere». Non mi spiego più la battuta: lei oggi ha riso parecchie volte.
«Un po’ troppe in realtà, forse mi sono distratto. Ma vuole sapere una cosa veramente ridicola sul mio conto?».
Certo.
«Ho paura dei gatti neri che attraversano la strada. Specie se provengono da sinistra. Non me ne chieda la ragione, ma è così".
E quando accade che cosa fa?
«Mi fermo e aspetto che qualcuno, passando prima di me, si prenda il carico di irrazionale sfortuna di quel povero gatto».
Stefania Rossini
Bocconi mon amour -
Proporre un’intervista sentimentale a Mario Monti è un atto di presunzione che si paga quasi subito. L’uomo è cortese, disponibile, pronto a concedere più del solito notizie su di sé e giudizi sul mondo. Ma a condizione di guidare lui, se non gli argomenti, almeno lo stile della conversazione. E di essere seguito in quella dimensione più alta dove l’Italia si guarda con occhi europei, la politica quotidiana con il distacco del grande esperto internazionale, mentre il linguaggio vigila sulle sfumature e l’understatement è d’obbligo. Il Monti privato somiglia inoltre così tanto al Monti pubblico che è difficile separare il funzionario rigoroso dal marito devoto, l’economista dal padre di famiglia, il presidente della Bocconi dal tifoso del Milan. Ci proveremo con alterne fortune, scoprendo qua e là frammenti di passioni, piccole superstizioni e qualche peccato d’orgoglio.
L’ex commissario europeo alla concorrenza che si conquistò il nomignolo di Supermario multando Bill Gates per mezzo miliardo di euro e facendo saltare più volte i nervi a qualche capo di Stato, ci riceve nel grande studio dell’Università milanese che lo ha visto studente, professore, rettore e infine presidente, in un percorso di fedeltà che la dice lunga su di lui. Sono i giorni della disfatta dell’Unione europea sotto i colpi dei referendum e dei mancati accordi, e quasi dispiace cominciare da lì.
Glielo chiedo brutalmente: questa è la fine dell’Europa?
"No, è solo una gravissima battuta di arresto. Ma spero che sia almeno la fine dell’uso cinico dell’Europa come capro espiatorio".
Con chi ce l’ha?
"Con il costume, sempre più diffuso, di dare all’Unione la colpa delle carenze nazionali e di usarla spregiudicatamente a fini di politica interna. Non si può, come ha fatto Chirac, parlare per sei giorni contro l’Europa e poi aspettarsi che la domenica i cittadini votino sì alla Costituzione".
Non sta pensando solo alla Francia, vero?
"Vero. Anche in Italia l’abitudine di sparare a zero sull’Europa dà fiato ai filoni più populisti e dà spazio a pericolosi fenomeni di leadership che sono in realtà delle followership, perché seguono e non guidano l’opinione pubblica".
Come prevede che andrà a finire?
"I singoli Paesi si accorgeranno presto che procedendo individualmente nell’arena mondiale, morirebbero anche prima. Sarà quindi lo stesso interesse nazionale a portare alla ripresa del cammino europeo. Intanto però si saranno perduti anni preziosi in un momento in cui l’Europa non poteva permetterselo".
Lo dice con malinconia. Sembra un dolore personale, oltre che un disappunto politico.
"Infatti lo è. I miei dieci anni a Bruxelles sono stati impegnativi e di grande soddisfazione. Nel secondo mandato ho potuto fare una concreta politica della concorrenza, un campo in cui l’Europa ha la capacità e i poteri per decidere. Ho visto paesi come la Germania che, dopo estenuanti resistenze, hanno dovuto abbandonare privilegi vecchi di cent’anni, come le garanzie pubbliche alle banche. E ho gustato la soddisfazione personale di vedere dissolversi la convinzione che a un italiano non potesse essere dato un potere di vigilanza".
Il pregiudizio sulla inaffidabilità italiana ha colpito anche lei?
"Non si arriva con crediti di fiducia da un Paese come il nostro. Quando, nel ’94, Berlusconi mi mandò a trovare Santer perché mi conoscesse in vista del mio ingresso nella Commissione, ricevette questa telefonata: ’Ah caro Silvio, il suo professor Monti mi ha fatto un’ottima impressione, non sembra neanche italiano’. Si rende conto? Lo stava dicendo al presidente del Consiglio italiano".
Dica la verità: avrebbe fatto volentieri un terzo mandato.
"Non l’ho mai nascosto. È stato anzi l’unico caso in tutta la mia vita in cui sono stato io a candidarmi. Il presidente Barroso aveva dichiarato pubblicamente che mi avrebbe voluto nella sua Commissione e io ero pronto a spendermi per le cose in cui ho creduto e credo".
Ma c’era la candidatura Buttiglione...
"Già. E preferisco pensare che, come mi ha detto Berlusconi, siano state le difficoltà interne a suggerirgli quella scelta e non, come è stato detto da qualcuno, che furono il presidente della Repubblica francese e il cancelliere tedesco a chiedergli espressamente di non riconfermarmi".
Adesso è pronto per incarichi nazionali. Si parla di lei ad ogni sospetto cambio di guardia: ministro dell’Economia, premier, governatore della Banca d’Italia, persino presidente della Repubblica. Ne è gratificato?
"Non sono mica delle offese. Né sono cose da prendere sul serio".
Vuol dire che non le andrebbe?
"Molti mi dicono: ’Perché non si candida? La situazione è difficile. Lei sarebbe di aiuto’. Io rispondo con due considerazioni. Prima: pur rispettando molto chi fa questa scelta, non entro in politica perché non mi sento di conferire la mia capacità di valutazione - se ne ho - ad altri. Preferisco esercitarla di volta in volta, anche pubblicamente, con il giudizio e la proposta".
Seconda?
"Riguarda il fatto che la merce veramente rara oggi in Italia non è quella di bravi e volenterosi politici, ma quella di persone nei confronti delle quali nessuno possa avere l’alibi di dire: ’Non prendo in considerazione quello che dice perché appartiene alla parte X’".
Nell’insieme un bel peccato di narcisismo.
"Può darsi che non manchi questa componente caratteriale, ma le ragioni di fondo sono di principio. Del resto se ho rifiutato degli incarichi è stato perché rifiutavo di far mie decisioni altrui. È andata così anche ultimamente, quando Berlusconi mi ha offerto il posto lasciato libero da Tremonti".
Racconti.
"Siamo nel luglio 2004 e vengo invitato a cena a Macherio per discutere la proposta. In una conversazione molto approfondita emerge che io considero prioritario non ridurre l’Irpef mentre il presidente del Consiglio ritiene il contrario. Con molta serenità arriviamo alla conclusione che, per fare un contratto con me, lui non può rompere il suo contratto con gli italiani. Sono convinto che sia necessario essere molto esigenti sulle condizioni in modo che poi, ove capiti, si possano fare le cose bene e con forza".
E a quel punto non piacerà più a tutti.
"È evidente. Lei lo chiama narcisismo, ma nella situazione particolarmente difficile dell’Italia di oggi può governare bene solo chi non faccia del governo la propria ambizione".
Incarichi a parte, com’è il suo rapporto personale con Berlusconi?
"Di simpatia. Non abbiamo mai avuto difficoltà di dialogo nelle non numerose occasioni in cui ci siamo incontrati. È una persona di prorompente cordialità".
Non è facile immaginarla mentre, a tavola, ride alle barzellette del premier.
"Ma si sbaglia. Anche se sono incapace di ricordarle e di raccontarle, le barzellette mi piacciono. E Berlusconi ha una vera arte in questo genere. Se poi la mette in mostra con altri capi di governo, non so. Non è il mio girone".
Monti, lei ha fama di impassibilità, ma non risparmia sottotesti. L’ha imparato alla scuola dei gesuiti?
"Al Leone XIII di Milano, dove ho studiato per dieci anni, ho appreso semmai altre capacità. Se ne accorse una volta anche il cancelliere Schroeder che alla fine di un’estenuante trattativa in cui io non potevo concedere ciò che voleva, mi chiese: ’Lei ha studiato dai gesuiti? Sì? Ah, ecco perché argomenta, argomenta, argomenta e non concede mai niente’".
Qui invece dovrà concederci un po’ di vita privata.
"Proviamo, ma non prometto niente".
Lei è sposato da quasi quarant’anni con la stessa donna. È stato anche il suo primo amore?
"Sì, e non intendo parlarne".
Perché no? In fondo lei è persona dalle molte monogamie.
"Questa è una definizione che mi piace. È vero: la Bocconi, l’Europa, il ’Corriere della Sera’, sento il valore della continuità. Neanche Gianni Agnelli riuscì a convincermi a scrivere per ’La Stampa’. Gli dissi: ’Vedrà che verrà prima lei al ’Corriere’. E poco dopo infatti lo comprò".
Che figlio è stato, professore?
"Del tutto normale, cresciuto nel rispetto verso un padre direttore di banca con una schizzinosa distanza dalla politica e una madre che aveva la dote dell’allegria. Non ho ripreso da lei, purtroppo".
Non sembra triste.
"Ma non sono neanche allegro. Non ho il dono della convivialità splendente. Può immaginare quanti dinner speech ho dovuto fare in tutti questi anni e in tutti i Paesi del mondo. Ogni volta è stata una piccola fatica".
Ha intenzione di raccontare sessant’anni di sobrietà? Rintracci almeno un attimo di irrequietezza. Anche lei sarà stato adolescente.
"Un po’ tardivo, per la verità. Non ero precoce da nessun punto di vista. Studiavo, ero appassionato di ciclismo e passavo molte notti ad ascoltare la radio ad onde corte. L’ho fatto per anni".
Le serviva per evadere?
"No. È stato utile un po’ per conoscere le lingue e molto per capire il mondo. Ascoltavo trasmissioni dall’Australia, dai Paesi dell’Est e dall’Africa. Nel 1958 ho capito da parole in codice che era scoppiata la ribellione in Algeria. Nel 1960 ho sentito in diretta il discorso di insediamento di John Kennedy".
È nata lì la sua vocazione sovranazionale?
"In parte. Quando ho avuto 16 e 17 anni mio padre mi ha anche portato qualche settimana in Urss e poi negli Usa. Voleva che mia sorella ed io ci facessimo un’idea personale delle due potenze".
Funzionò?
"Sì, anche se mi procurò un piccolo infortunio con i gesuiti del mio liceo. Avevo apprezzato il sistema scolastico russo e lo avevo onestamente raccontato in un articolo per il giornalino ’Giovinezza nostra’. Poco dopo mi arrivò una lettera del padre rettore: mi spiegava che aveva cestinato lo scritto perché avevo avuto un approccio ingenuo verso un sistema pericoloso sul piano etico. Lui aveva ragione, ma avevo ragione anch’io e strappai la lettera in un impeto di rabbia".
Ha visto che abbiamo scovato un piccolo gesto di ribellione. Continuiamo?
"Non credo che troverà altro".
Il suo primo incarico universitario è stato alla facoltà di Sociologia di Trento. Era il 1969 e molti suoi coetanei erano nel movimento. Lei partecipò?
"Ero un docente e mi comportavo come tale. Capo del movimento era Marco Boato e ricordo che il primo giorno lui e altri leader studenteschi, che davano del tu ai docenti, dissero quasi incidentalmente: ’Ah, naturalmente faremo l’esame politico a ognuno di voi’. Quella notte non ho mica dormito".
Come andò l’esame?
"Non lo feci. E in fondo anche Trento è stata un’esperienza interessante. L’anno dopo mi spostai a Torino e in seguito alla mia amata Bocconi, che è stata la cosa più importante della mia vita professionale".
Professor Monti, lei crede in Dio?
"Sì, ma lo considero un fatto importante per me, non un elemento di identità pubblica".
Con i tempi che corrono questa è una grande risposta. Come si è schierato nel dibattito intorno alle radici cristiane dell’Europa?
"Non l’ho considerata una questione decisiva. Nelle Costituzioni le parti declaratorie sono importanti, ma il fatto che l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro garantisce forse la piena occupazione?
Nell’Europa dei Trattati c’è già valore etico, non solo mercato. Lo ha capito anche la Conferenza episcopale polacca".
A cosa si riferisce?
"Alla visita che una delegazione presieduta dal cardinale Glemp fece a Bruxelles nel 1996. Volevano decidere quale posizione prendere per orientare il governo polacco sull’ingresso o meno nell’Unione. Pensavano che l’Europa fosse solo roba di mercato, monete e banche".
Non è così?
"È anche così, ma dietro quella moneta e quel mercato c’è la possibilità di ristabilire un rapporto eticamente corretto tra le generazioni successive. Io spiegavo il caso Italia dei decenni scorsi, Paese che si proclamava guidato da istanze etiche, cattoliche, marxiste o un misto di entrambe, ma che primeggiava nell’imbroglio sistematico verso i propri figli caricandoli di debiti prima ancora che nascessero".
A proposito di figli, lei ne ha due ormai adulti. Che padre ricorda di essere stato nella loro infanzia?
"Un padre non abbastanza presente, persino a sentir loro che, come tutti i ragazzi, potevano essere più infastiditi dall’eccesso di attenzioni che dall’assenza".
Siamo alla fine, professore, e mi viene in mente che un suo collaboratore avrebbe detto: "Sono di quelli che l’hanno visto ridere". Non mi spiego più la battuta: lei oggi ha riso parecchie volte.
"Un po’ troppe in realtà, forse mi sono distratto. Ma vuole sapere una cosa veramente ridicola sul mio conto?".
Certo.
"Ho paura dei gatti neri che attraversano la strada. Specie se provengono da sinistra. Non me ne chieda la ragione, ma è così".
E quando accade che cosa fa?
"Mi fermo e aspetto che qualcuno, passando prima di me, si prenda il carico di irrazionale sfortuna di quel povero gatto".
Il commissario dà scacco a Bill Gates
1943 Mario Monti nasce il 19 marzo
a Varese. Il padre, Giovanni, è un dirigente di banca. La madre, Lavinia Capra, è casalinga. La sorella maggiore Claudia diventerà docente di letteratura tedesca. Nel 1946 la famiglia si trasferisce a Milano.
1961 Terminato il liceo classico presso l’Istituto dei gesuiti Leone XIII, Monti si iscrive alla facoltà di Economia dell’Università Bocconi. Se ne allontana
un anno per fare uno stage presso
la Comunità europea.
1965 Si laurea con una tesi sul bilancio revisionale della Cee e resta alla Bocconi per quattro anni come assistente.
1967 Sposa Elsa Antonioli, dalla quale avrà due figli, Federica che oggi vive a Parigi, e Giovanni che lavora a Londra presso una banca internazionale.
1969-1984 Professore ordinario a 33 anni, insegna presso la facoltà di Sociologia all’Università di Trento nel ’69. Nello stesso anno pubblica "Problemi di economia monetaria". Poi si trasferisce all’università di Torino. Nel frattempo ha cominciato anche a scrivere editoriali per il "Corriere della Sera" e a partecipare a diverse Commissioni ministeriali su temi economici.
1985 Alla Bocconi diventa direttore dell’Istituto di Economia politica dove insegna la stessa materia. Quattro anni dopo sarà nominato rettore.
1994 Alla morte di Giovanni Spadolini assume la presidenza della Bocconi. Intanto ha avuto cariche nei consigli di amministrazione della Fiat, delle Generali, dell’Ibm e della Comit, dove è stato vicepresidente. Esce il saggio "Il governo dell’Economia e della moneta" (Longanesi).
1995 Designato insieme a Emma Bonino da Berlusconi come rappresentante italiano presso la Comunità economica europea, comincia il suo incarico
di Commissario per il mercato interno.
Nel ’98 esce la sua "Intervista sull’Italia europea" con Federico Rampini
1999 Alla scadenza del mandato viene riconfermato a Bruxelles dal governo D’Alema. Cambia però l’incarico. Ora è sua la strategica poltrona di Commissario per
la concorrenza che occuperà con rigore efficiente.
2001 Blocca l’acquisto per 42 miliardi di dollari di Honeywell da parte del colosso statunitense General Electric, lasciando
di stucco gli americani che d’ora in poi lo chiameranno Supermario, come il pupazzo dei giochi Nintendo.
2004 Vince la sua battaglia più difficile contro la Microsoft di Bill Gates. L’accusa di abuso di posizione dominante sostenuta da Monti porta a una multa record di 497 milioni di euro. Nello stesso anno, scaduto il mandato, Monti si dice disponibile a proseguire il lavoro,
ma l’italiano designato dal governo sarà Rocco Buttiglione, sostituito dopo
la bocciatura del Parlamento europeo
da Franco Frattini.
2005 Lasciato l’insegnamento, Monti
è tuttora presidente della Bocconi.