Dino Buzzati, Epoca 29/11/1996, 29 novembre 1996
STORIA DI RINA FORT - ARTICOLI DELL’EPOCA DI DINO BUZZATI
Lei era una barista friulana. Il 29 novembre di 50 anni fa, a Milano, massacrò a colpi di spranga la moglie e i tre figlioletti dell’amante. Una strage che sconvolse l’Italia, appena uscita dalla guerra. E che «Epoca» vi ripropone negli articoli (scritti per il Correre della sera) di un cronista davvero eccezionale. (Dino Buzzati).
Il 29 novembre 1946 Rina Fort, 31 anni, friulana, dal 1942 a Milano, uccise a sprangate la moglie del suo ex amante, Franca Pappalardo, e i suoi tre figli, Giovannino di 9 anni, Giuseppina di 5 e Antoniuccio di appena 10 mesi. Lo fece per gelosia, per vendicarsi di Pippo Ricciardi, che l’aveva lasciata liquidandola con un po’ di denaro, dopo tre anni di intensissimo relazione. Il delitto suscitò vasta impressione a Milano e in tutta Italia. Rina Fort confessò dopo 17 interrogatori e 80 ore di torchiatura. Condannata all’ergastolo nel 1950, tornò in libertà nel 1975, dopo 29 anni. Morì, a 73 anni, nel marzo del 1988, a Firenze. A mezzo secolo da quel delitto ecco tre degli straordinari articoli che Dino Buzzati scrisse allora per il Corriere della Sera. Tutti gii articoli sono pubblicati su Cronache Nere, edizioni Theoria, a cura di Oreste del Buono, 1984.
3 dicembre 1949
Una specie di demonio si aggira dunque per la città invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue. L’altra sera noi eravamo a tavola per il pranzo quando poche case più in là una donna ancora giovane massacrava con una spranga di ferro la rivale e i suoi tre figlioletti. Non si udì un grido. Negli appartamenti vicini continuavano, fra tintinnio di posate e stanchi dialoghi, i pranzi familiari come nulla fosse successo, e poi le luci ad una una si spensero, solo rimase accesa nel cortile quell’unica finestra al primo piano, e i ritardatari, passando, pensarono che lassù forse un bambino era ammalato, o una mamma era rimasta alzata tardi a lavorare, o altra scena, dietro quei vetri, di notturna intimità domestica; e invece là tutto era silenzioso e immobile; orribilmente fermi come pietre i quattro corpi di cui il più piccolo seduto sul seggiolone con la testa piegata da una parte come per un sonno improvviso, e fermo ormai i anche il sangue i cui rigagnoli, simili a polipi immondi, lucevano sempre meno ai riflessi della lampadina di 25 candele, facendosi sempre più neri. Così la città intera vegliò, inconsapevole, sulla mamma e sui tre bambini morti senza sacramenti, abbandonati sulle gelide piastrelle in tutta la loro corporale miseria, e fino a che non tornò il giorno e non suonarono le nove non ci fu a consolarli la pietà di nessuno.
Poi la strage si seppe e, passando le ore, sembrava diventare sempre più immensa, Orrore, esecrazione, disgusto, a che servono le solite parole? C’era qualche cosa di più. Una nausea atroce, al pensiero di quanto era accaduto, si spandeva per la città. E poi è passato improvvisamente un brivido, un lungo e inconfessato brivido di vera paura. Perché agli spettacoli più fantasiosi di morte violenta la gente aveva fatto negli ultimi anni un allenamento senza pari, e la vendetta - che ad onta dei millenari miti e della triste favola dell’onore è pur sempre uno del sentimenti più abietti - aveva negli ultimi anni celebrato dovunque sagre di incomparabile potenza, e un morto ammazzato, o due, o cento in un colpo solo non riuscivano più a far vacillare l’irrobustita sensibilità dei nostri cuori. Ma questa volta il massacro conteneva una oscura inverosimiglianza che la cattiveria, la gelosia, l’avidità, la bassezza d’animo non bastavano, neppure assommate, a spiegare. Solamente le stragi dei pazzi furiosi riescono talora altrettanto inverosimili. Ma c’era stato scatenamento di follia in via San Gregorio? Qualcuno aveva meditato l’eccidio, fissato un appuntamento, predisposto tutto affinché fosse evitato 1’allarme. Al di là della più sfrenata perversità restava pur sempre un largo margine di sangue che nessun odio poteva giustificare, la misura stessa dell’uomo ne risultava alterata, quale noi lo conosciamo da secoli pur con tutte le sue possibili abiezioni. Di qui lo spavento. Qualcun altro, diverso da noi, era necessariamente intervenuto l’altra sera, un personaggio delle tenebre vogliamo dire, proprio come in certe storie antiche, il medesimo forse che da troppo tempo va infestando le nostre contrade; e probabilmente faceva ormai assegnamento senza limiti sulla nostra abitudine al sangue, solo che stavolta ha finito per strafare e si è tradito. La gente comincia ad avere paura. Non è più una faccenda altrui, buona per quattro chiacchiere tra comari, e dopo dieci minuti non ci si pensa più; nessuno può dirsene estraneo, l’ombra de male scivola intorno a ciascuno di noi e ci potrebbe toccare.
«Speriamo che la popolazione si muova», diceva ieri in tranvai una vecchietta perché nei tranvai, nelle botteghe, nei mercati non si parla d’altro. E chissà eh cosa voleva dire. Muoversi contro chi Contro l’assassina? Ma a che servirebbe? Ciò che lei potrebbe pagare è cosi ridicola cosa al paragone del debito! O invece senza rendersene conto, la vecchietta intendeva proprio riferirsi a colui che sta girando tra di noi? Sì, un sottile impalpabile panico si è irradiato dal sinistro numero 40 di via San Gregorio. Noi siamo ben chiusi in casa con le porte sprangate, eppure lo sentiamo vagare intorno, nelle ore alte della notte, e strisciare lungo le trombe delle scale. Di chi è la colpa se è venuto? Da qualche anno si direbbe egli si sia qui insediato da padrone. Potrebbe essere quell’ombra che scompare adesso dietro l’angolo, potrebbe essere quello sconosciuto che ci fissa per via senza apparenti ragioni. Un giorno o 1altro chi può escludere che all’improvviso non si affacci anche alla nostra porta? Non si può mai giurare. Egli gira invisibile, covando il male, e non sarà mai stanco. Bisogna scovarlo. Occorre togliergli l’aria, incalzarlo oltre i confini estremi della città, respingerlo fino alle lontane foreste del buio da dove è riuscito a fuggire.
11 gennaio 1950
Dalla portina, alle 9.30, una donna entra nella gabbia. Ha un paltò nero, un poco infagottato. Una sciarpa di lana giallo chiaro, gettata sulla spalla, le copre mezza faccia. Tiene la testa china e si nasconde gli occhi con le mani, nere anch’esse per i guanti di filo. Pure i capelli, spartiti lateralmente con cura e raccolti sulla nuca, sono neri. Sembra una di quelle penitenti che si vedono inginocchiate nell’angolo più buio della chiesa, alle cinque del mattino. Invece è Rina Fort, la «belva». E contrizione quel nascondersi la faccia? No. Lo fa perché ci sono i fotografi. In- torno alla gabbia si sviluppa un tumulto affannoso di giovanotti che levano le macchine con le lucenti coppe per le lampade al magnesio. E i carabinieri hanno l’ordine di mandarli via. Balenano le candide vampe, sparate un po’ a casaccio. E lei non vuole. Proprio si copre gli occhi come quando si cammina contro vento, per ripararsi dalla polvere.
Finché si ode, flemmatica e cortese come a un ricevimento d’ambasciata, la voce del presidente Marantonio: cedono allora anche gli ultimi più testardi fotografi. Torna la calma (...). Finalmente Rina Fort toglie le mani dalla faccia e gira intorno i primi sguardi, però senza apprensione nè paura. Una curiosità lenta, svogliata, che ricorda gli occhi dei buoi. Cercando riparo dai fotografi, senza neppure accorgersene, si è accoccolata quasi a terra, seduta sull’orlo della pedana di legno. Adesso parla al suo avvocato, e il moto della bocca ha fatto cadere giù la sciarpa. Voci sommesse intorno: «Ma non è mica brutta... Dalle fotografie sembrava una strega e invece...». Dice un avvocato: «Oggi non sta bene, oggi è sciupata, avreste dovuto vederla qualche giorno fa... Un fiore, era».
Un fiore! Che curiosa idea. Certo il mostro di via San Gregorio non ha un volto da mostro. Niente di duro, o crudele, o singolare nei lineamenti. Non si direbbe neanche che la donna sia in prigione da tre anni. C’è anzi una strana quiete in quella faccia, una specie di appagamento fisico benché lei, con aria contrita, si lagni di non sentirsi bene: ha avuto la bronchite, la febbre ancora insiste e al mattino a San Vittore l’hanno tratta a forza dalla cella, dice, per portarla al palazzo di Giustizia. Senza accenti d’ira, però, senza alzare il tono. E si ode il leggero sibilo della «s» come delle beghine litanianti. Non è certo elegante, ma si vede che oggi ci teneva a presentarsi in ordine. Nuovi sembrano i guanti e cosi le scarpette nere. Bene stirato è il fazzolettino bianco che ogni tanto si preme sulla bocca. No, non si può dire brutta. Ha ancora, negli occhi un poco a mandorla, nel taglio del viso a zigomi alti, nel naso vagamente da meticcia, nelle labbra rilevate, una certa bellezza soda e popolana. Solo la bocca ha qualcosa di pesante, sornione e lontanamente animalesco.
Che vedono i suoi occhi, inespressivi più che spauriti? (...). Si direbbe che Rina Fort non veda e non ascolti. Viene perfino fatto di credere che non pensi a niente. O per lo meno, non pensi alla rovina propria, nè a chi dorme sotto terra per colpa sua, nè alla punizione che l’aspetta. A vederla così inerte (non impassibile perché l’impassibilità è già una forza, seppure negativa, ma proprio inerte, atona, indifferente) si suppone piuttosto che mediti alle piccole ridicole cose della sua vita carceraria, alle cose che qui non c’entrano per niente: al lavoro di maglia cominciato lunedì, per esempio, o a una certa suora, o alle scarpe che le fanno male. Niente altro, si direbbe (...). A una porta laterale preme un gruppo di donne. Per un istante si socchiude un battente e un grido secco entra nell’aula: «A morte!». Voci confuse, altre invettive, maledizioni e insulti rispondono dal fondo, dove il pubblico si assiepa alla balaustra divisoria (in prima fila molte donne d’età, astiose e risolute, che sembra siano là per riscuotere un credito; le stesse identiche che facevano la calza ai piedi della ghigliottina nei giorni del Terrore). Ma il volto di Rina Fort non un tremito, una sia pur lontana ombra di paura. Che vuole quella gente? Contro chi se la prende? O addirittura lei non se ne è neanche accorta?
L’avvocato difensore ha deposto sul banco il bocchino di penna d’oca che stava tormentando col denti, si è aggiustato gli occhiali, si è gettato indietro sulle spalle la toga, come per avere più libero il respiro, e parla, riscaldandosi di frase in frase. Parla contro la costituzione a parte civile del Ricciardi; si oppone per tre motivi, dice, due giuridici e uno morale. Poi insorge l’avvocato del Ricciardi, interviene il procuratore della Repubblica, c’è un , battibecco; finalmente, anche lui contro il Ricciardi, irrompe come un mastino il legale dei Pappalardo. Caterina Fort però non si muove, è evidentissimo che non capisce niente. Ogni tanto, in mezzo al turbine dei termini giuridici, risuonano con bizzarro spicco parole di una chiarezza spaventosa. Sono tutti sinonimi: «Delitto... eccidio... strage... quadruplice omicidio». Era una simpatica contadinella, una volta. Aveva sedici anni quando lasciò il paese. Alla stazione le amiche, un po’ invidiose, scherzavano; «Vedrai, in città farai fortuna», le dissero, «vedrai, incontrerai un grande signore, un giorno ti vedremo tornare in automobile!». Lo dicevano per ridere, naturalmente, ma non poteva essere poi vero? Ora per lei, solo per lei Caterina Fort, tanta gente si è riunita, e i carabinieri hanno messo i cordoni d’argento e il pennacchio e il vecchio Castellucci, chiesastico e dickensiano ufficiale giudiziario, ha indossato la mantellina rossa. Gli avvocati parlano, parlano; «Quadruplice omicidio... massacro... assassina... vittime innocenti,.. spaventoso caso...». Di chi stanno parlando? Ode, non ascolta, Rina Fort. Non trema, non piange, non ha un palpito. Soltanto rotea adagio intorno i suoi sguardi bovini.
21 gennaio 1850
In quell’istante ci siamo chiesti: e se fossimo noi, là, nella gabbia, che cosa faremmo? Era entrata poco prima, con un dondolio quasi spavaldo delle spalle, e con le mani tirava su, in modo da nascondersi la faccia, la sciarpa di lana canarino. (Quei guanti neri contro il giallo, quel gesto così femminile di dissimularsi, diventato una specie di suo vezzo: tutte civetterie calcolale?). Poi aveva fatto, con la sinistra, al patrono del Ricciardi, un cenno scherzoso di minaccia, come si, fa ai bambini piccoli: guarda che tè le do, sai? La sciarpa si rilassò, scoprendole la bocca. Sorrideva. Se ne stette quindi immobile, identica ai giorni prece lenti, la, testa un po’ china, le palpebre abbassate, solo che adesso si teneva sempre la sciarpa alzata.
Entrò la Corte, ci fa un ripetuto barbaglio di bengala, il presidente cominciò subito a leggere. Ma quei preamboli formali non finivano mai, dunque? «Colpevole», si udì. Lo si sapeva. «Esclusa la premeditazione»: le tre parole, benché Marantonio leggesse senza la minima espressione, ebbero un suono intenso, sopravanzando tutto il resto. I cuori, anche ai più vecchi e scettici cronisti giudiziari anche nel petto degli avvocati avvezzi, come i medici, a contemplar sventure, battevano più forte del solito. Quello della imputata no. Non alzò gli occhi, ne impallidì, ne vacillava di un millimetro. Atona e inerte. «Ergastolo», si udì, poi delle represse grida di dietro, dove si accalcava u pubblico «Bene! Bravi!»», e qualche rotto applauso. In lei nulla cambiò. Ma non capiva?
Andandosene, non si voltò il dietro a guardare quell’ultimo pezzetto di mondo che le era concesso di vedere, il mondo dove pure era vissuta fino allora e in cui mai più sarebbe ritornata. Ma non capiva che queste stesse giornate di processo, pur atroci, un giorno lei le rimpiangerà come un paradiso? Non ci saranno mai più per te, Rina Fort, giorni come i nostri, allegre cene in compagnia di amici, né andare e venir per la città, né begli abiti nuovi, né sguardi di giovanotti, le corse in automobile, né gusto di mettere via i soldi, né baci, mal né casa tua, né teneri risvegli nel tuo letto. Mai più, capisci? Per te non nascerà più il sole, né pioverà, né scenderà la neve, né le piante metteranno le foglie, né la sera le vetrine si accenderanno di luci e desideri. E non ci saranno più per te neanche i lampi dei fotografi – che ora fingi di aborrire — né il ronzare intorno dei cronisti, né titoli sui giornali col tuo nome. Guardali, fin che sei ancora in tempo - ti rimane una frazione di secondo – questi uomini, queste signore, venuti ad ascoltar la tua condanna. Ti sono odiosi, probabilmente, i loro sguardi da visitatori di zoo li toglievano il respiro, è vero. Ma sono liberi, capisci? E non li potrai più vedere. Dell’intera umanità che vive e che lavora sulla Terra, questo è l’ultimo drappello venuto ad accompagnarti sulla riva. Guarda le pellicce delle donne, i cappellini, gli ori. Non ne vedrai più. Guarda le facce. Ne incontrerai altre, ma come queste no, anche se ti sono odiose. Rina Fort però non si volta, senza tremiti; compare dalla porticina, l’uscio si è subito chiuso. Rina Fort forse non capisce. Eppur si trova ormai al di là del confine, in questo istante si è staccata dalla nostra riva, ha già cominciato il viaggio senza fine sull’’immobile, grigio, deserto mare dell’espiazione, così simile alla morte. Oppure un giorno, chissà quando, fra trenta, quarant’anni, tornerà? Nella miseria suprema degli ergastoli, agli animi che di giorno in giorno si atrofizzano nella uniformità delle stagioni, palpita tuttavia lontano, simile a irraggiungibile lumino, il miraggio della grazia. Così remoto che in pratica è come se non esistesse neanche. Però esiste. E può darsi che un tempo futuro – noi saremo ancora vivi? – una vecchietta dalla faccia spenta avanzi a passi strascicati per corso Buenos Aires. Della famosa strada solo il nome è rimasto. Tutto il resto è irriconoscibile. Come mai i tranvai non si vedono più? E cosa sono queste bianche torri che giganteggiano nel cielo? La vecchia non può neanche vederle fino in cima, piegare indietro il capo, rattrappita com’è, non le riesce. I passanti, stupiti dal suo aspetto, la scansano. Dio, com’è vestita. Ha un curioso paltò nero, alle mani guanti neri, e al collo una sciarpetta di lana color giallo canarino. Si avvicina a una ragazza; «Per favore, signorina, la via San Gregorio?». Ma è là, signora!
Quella, via San Gregorio? Possibile? Ah si, ecco il resto dell’antico lazzaretto, rimasto tale e quale, coi suoi mattoni rossi. È un mattino d’aprile. Il sole allegro batte sugli incredibili palazzi bianchi che brulicano di vita. Avanza adagio adagio la vecchietta, trascinando i piedi, e si ferma casa per casa a controllare il numero. ’Trentaquattro, trentasei, trentotto. Ecco il numero 401 Al quaranta c’è una casa altissima, nuova, tutta a loggiati, tendoni, fiori, costruita per gente felice; e davanti un giardinetto, dove tre bambini stanno giocando.
La vecchia dalla sciarpa canarino si appoggia alla cancellata, è stanca. Vede una donna uscire dalla casa. «Scusi», le chiede, «scusi la domanda: ma è qui che tanti anni fa è successo un delitto?». «Qui?... Ma si... è vero... un fatto del genere l’ho già sentito raccontare... ma deve essere dei tempi antichi... Sì, si, adesso mi ricordo... una donna che ha ammazzato una mamma e tre bambini, un orribile fattaccio... Ma sarà una storia, sa?... Io non ci credo a queste favole!».
«Grazie», dice la vecchia. E resta là, sola, sopravvissuto e miserando rudere, guardando la gente che passa, e inutilmente cerca un volto conosciuto. Tutto cambiato, neppure una casa, un bar, un negozio di quelli di allora. E gli uomini, che lei conobbe, tutti scomparsi, o morti. Sprofondati nelle catacombe di qualche polveroso archivio gli atti del suo processo, ingialliti nelle biblioteche i giornali con le fotografìe, svaniti anche i ricordi. I passanti si tirano di lato vedendo quella pietosa e strana vecchia. Guardatela come si aggrappa al cancello e come fissa i tre piccoli che giocano in giardino. Ma che le salta, adesso? Cos’ha da piangere in quel modo?