Giorgio Cosmacini, Saturno-il Fatto Quotidiano 29/7/2011, 29 luglio 2011
LA GUERRA DEL CIBO NON FINISCE MAI - «NON È FACILE
LA GUERRA DEL CIBO NON FINISCE MAI - «NON È FACILE morire di fame». Così iniziava il libro La fame nella storia (Editori Riuniti 1987) nato da un incontro interdisciplinare tra storici, demografi, economisti e nutrizionisti, promosso venticinque anni fa dalla Fondazione Rockefeller. La conclusione era che «più che di fame in senso stretto (malnutrizione proteico-energetica) la gente ieri moriva, e oggi muori nel Terzo Mondo, di povertà». L’abjet poverty, come si dice all’ONU, è la categoria che comprende tuttora il mancato soddisfacimento dei bisogni essenziali: il cibo, l’acqua potabile, un ambiente socialmente non sfruttato e non bersagliato da calamità naturali, tra cui le carestie.
Una Storia delle carestie (Il Mulino 2011) è il libro che Cormac Ó Gráda, economista all’University College di Dublino, dedica al “terzo cavaliere dell’Apocalisse”, la carestia, che insieme alla peste, alla guerra e alla morte cavalca verso la fine dell’umanità. Le carestie sono sempre state tra le maggiori catastrofi, reputate in passato di disastri inevitabili, dovuti – si diceva – alle “scorrettezze della natura”. Ma, scrive l’autore, «nel corso della storia i poveri e i senza terra si sono ribellati e hanno resistito all’approssimarsi delle carestie, che credevano essere causate dall’uomo», dovute alle “sregolatezze della società”. Fisiogene o antropogene? Tra le carestie di origine naturale si può qui ricordare quella che nel triennio 1845-1847 fu dovuta, proprio nell’Irlanda patria dell’autore, alla malattia della patata che ridusse la popolazione da 8 a 5 milioni di abitanti; e tra le carestie di origine economico-sociale si può ricordare quella sui generis che nei secoli XVIII e XIX fu dovuta, nel Lombardo-Veneto, allo scompensato monofagismo del mais (una cronica alimentazione di sola polenta) che provocò la malattia avitaminosica delle “tre D” – dermatite, diarrea, demenza – comunemente detta “pellagra”.
Le carestie sono state e sono anche “guerre con altri mezzi”, scrive Ó Gráda. Non sono solo le malattie che distruggono i raccolti a gettare nella fame le popolazioni; ci sono anche le responsabilità umane delle misure inadeguate e delle politiche omicide. In passato si avvelenavano i pozzi e si ricorreva agli assedi per affamare le città. Ieri e oggi, croniche ed estese penurie hanno afflitto il Continente nero coloniale e post-coloniale, alcune Repubbliche sovietiche negli anni Trenta, molte terre della Cina maoista, la Cambogia dei khmer rossi, le popolazioni del Corno d’Africa. Macchie – queste e altre – destinate a perdurare nella storia dell’umanità?
La logica malthusiana per cui la disponibilità di cibo costituisce il limite di crescita delle popolazioni, onde le carestie che penalizzano queste ultime funzionerebbero da calmiere o da forbice, è stata da tempo sottoposta a revisione. Ne è derivato un vero e proprio ribaltamento teorico circa i meccanismi d’incremento e di declino demografico e circa le concezioni secondo cui le popolazioni combattono la limitatezza delle risorse oppure vi si adattano.
«Oggi, il legame tra risorse alimentari e carestie è più debole rispetto ai tempi di Malthus», scrive Ó Gráda, che si chiede: «L’era delle carestie è finita?». «L’ottimismo sul futuro è stato attenuato dalla crescente preoccupazione per gli effetti del cambiamento climatico» conseguente al “riscaldamento globale” del pianeta; ed è «frenato anche dalla consapevolezza che la minaccia di conflitti interni e internazionali è sempre in agguato».
L’ottimismo dell’economista fiducioso, che vorrebbe vedere le carestie confinate in un passato senza ritorno, lascia trapelare il realismo dello storico avveduto, consapevole che i progressi della democrazia, se hanno migliorato la qualità delle politiche economiche, non sono però approdati, in campo agricolo ed ecologico, “a una minore corruzione”, la cui pervicace presenza costituisce tuttora una deprecabile “minaccia d’apocalisse”.