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 2011  luglio 28 Giovedì calendario

RICATTI DEMOCRATICI IL PD CACCIA CHI NON VUOLE PAGARE


Il suo nome è Angelo Pierleoni. Il partito democratico abruzzese l’aveva scelto per un posto in consiglio di amministrazione della Fira, la finanziaria (51% Regione Abruzzo, 49% banche private) che gestisce la ricca torta dei fondi europei. Pierleoni come tutti i manager, consiglieri, nominati con il voto decisivo del Pd a incarichi pubblici, era tenuto a versare il 12% del suo emolumento al partito. Non una gran somma: 1.200 euro nel 2009. Ma lui ha trasgredito. Non ha pagato per intero quel pizzo legalizzato, versando solo 400 euro in tutto. Risultato: è saltata la sua poltrona. Pierleoni prima è finito nel libro dei cattivi del Pd, additato al pubblico ludibrio dei militanti del partito perché aveva ottenuto la poltrona e non aveva ringraziato come doveva. Poi è restato senza incarico. Oggi rischia la stessa fine Domenico Subrizi, consigliere di amministrazione dell’Azienda di igiene ambientale marsicana spa (Aciam). Nel 2009 doveva al Pd che evidentemente aveva votato quella nomina 1000 euro. E non ha versato un centesimo. Nel 2010 stessa richiesta, e lui sempre orecchie da mercante: nessun centesimo. Si sarà rassegnato a vedere saltare per aria il piccolo incarico. Ma evidentemente non lo ritiene un granché. Forse si aspettava qualcosa di più dei 1.090 euro lordi mensili che frutta quel posto in consiglio. Il problema è che il Pd della provincia de L’Aquila non l’ha mandata proprio giù. E anche questo anno ha sbattuto il “mostro” Subrizi sulla sua homepage Internet. Insieme a un lungo elenco di eletti e nominati che pagano o meno il dovuto al partito. Ci sono deputati, senatori e consiglieri regionali, con tanto di versamento mese per mese. Chiedere loro un contributo è legittimo, anche se nessuna legge lo impone: il Pd ha contribuito a pagare la campagna elettorale per tutti, e qualche ritorno deve pure avere, perché le strutture territoriali del partito non godono del generoso finanziamento pubblico. È probabile che gli amministratori abruzzesi non abbiano gradito il gran rifiuto di un leader di lungo corso della politica come Franco Marini, che al partito non ha versato un centesimo. Sbatterlo lì nell’elenco è sottile vendetta. I dirigenti del partito abruzzese (era commissariato, da luglio finalmente ha un nuovo segretario) però trascinati dalla rabbia hanno messo nero su bianco anche quel che non si deve. Nel lungo elenco di chi paga il partito e chi no, ci sono fior di professionisti, che hanno ottenuto consulenze o posti in collegi sindacali di società pubbliche e miste pubblico-private: dall’Aciam alla Fira, dal Gran Sasso alla Saca, alla Cam. Pretendere dai nominati quel pagamento è proprio un pizzo sulla poltrona pubblica: se lo paghi, la conquisti. Se non lo paghi, smetti di lavorare. Si saranno pure offesi i dirigenti Pd per il paragone, ma il sistema è quello. E non ce lo siamo inventati noi giornalisti: lo hanno inserito con una certa imprudenza nei regolamenti finanziari che le federazioni locali del Pd hanno adottato su quasi tutto il territorio nazionale. E quando quel regolamento che non ha alcun valore normativo viene eluso, è addirittura iniziata la grande caccia agli incauti che si sono ribellati. Ce ne sarebbe abbastanza da scatenare le inchieste della magistratura in tutta Italia: poltrone pubbliche, che non vengono pagate dal partito ma da tutti i cittadini della comunità, barattate con presunti fedelissimi in cambio di una percentuale sull’affare. Non è una questione etica: è un tema di grande rilevanza penale, provato documentalmente. La class action più che gli iscritti del Pd (contro cosa? I documenti firmati dai loro dirigenti?) dovrebbero farla le procure contro i responsabili di questa gigantesca operazione di affitto di posti pubblici. Il caso del Pd della provincia de l’Aquila è clamoroso. Nell’elenco di chi deve pagare la percentuale al partito ci sono anche il presidente del Cam (Consorzio acquedotto marsicano), Gianfranco Tedeschi (mille euro versati l’anno scorso) e il revisore dei conti della stessa società, Antonio Lombardi (920 euro versati nel 2010). A fine gennaio scorso entrambi sono stati iscritti nel registro degli indagati della procura de L’Aquila con l’accusa di avere falsificato i bilanci del Cam per ricavare fondi pubblici utili alla agognata carriera politica dello stesso Tedeschi all’interno del Pd. L’indagine è durata lunghi mesi, con i bilanci passati al setaccio dalla Finanza. Gli indagati protestano la loro innocenza, ma certo il caso in sé ha scosso gli elettori abruzzesi di centrosinistra.
Per altro la lista dei buoni e dei cattivi dei nominati del Pd aquilano che hanno accettato o rifiutato il pizzo sulla poltrona pubblica è accompagnata da una delibera adottata dal Pd provinciale il 27 aprile 2011 in cui si afferma che «esiste una situazione di credito verso amministratori e figure istituzionali maturato a norma di regolamento finanziario nell’anno 2010. È compito del tesoriere provinciale ed eventualmente della struttura commissariale sollecitare i suddetti versamenti al fine di evitare l’applicazione delle sanzioni previste dallo Statuto e dai regolamenti del partito». A parte il tono minaccioso, il problema è che viene definito «credito » anche quel pizzo sulle poltrone pubbliche. Non solo: le somme non riscosse sono state inserite alla voce «crediti verso amministratori » perfino nei bilanci 2009 e 2010 del Pd. Non essendoci nessuna legge o norma civilistica che impone quelle percentuali sugli stipendi dei nominati (gli interessati hanno tutto il diritto di non pagare), il credito è inesistente e non può essere inserito in bilancio. Altrimenti, certificati o meno che siano come dice Pierluigi Bersani, in questo modo i bilanci del Pd sono falsi.

Franco Bechis