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 2011  luglio 28 Giovedì calendario

SE LA GERMANIA COMINCIA A VENDERCI

Feroci ribassi. Repentine risalite. Nuove, scoraggianti cadute. Le azioni delle banche italiane, cuore della Borsa di Milano e architrave dell’economia, tracollano sotto il peso della speculazione sulle obbligazioni degli Stati periferici dell’Eurozona e anche, ormai, su quelle nazionali. Un banchiere ieri osservava come il differenziale tra i Btp italiani e i Bund tedeschi sia ora analogo a quello della Grecia di 18 mesi fa. Deutsche Bank ha pressoché azzerato il rischio Italia nel suo portafoglio. E mentre infuria questa tempesta, al di là dell’Atlantico i Treasury bond vanno ancora bene, nonostante l’euro venga scambiato con il dollaro al 23%in più rispetto agli esordi, nonostante il dissidio tra Congresso e Casa Bianca minacci di provocare l’insolvenza tecnica dell’amministrazione federale e nonostante l’agenzia Egan-Jones abbia ridotto il rating del debito del Tesoro Usa, forse perché la pagano gli investitori e non i venditori di titoli.
Tutto fa emergere la subalternità di molti soggetti di mercato, che erano e vorrebbero restare padroni del mondo, alla politica nel momento in cui, paradossalmente, la politica mostra la propria impotenza di fronte ad altri soggetti, che scommettono contro. E l’Italia vi aggiunge l’ inadeguatezza del governo.
La European Banking Association aveva sottoposto 91 banche agli stress test per chiarire quali fossero sottocapitalizzate e quali no: un esercizio privato per soluzioni di mercato. Eppure, le azioni bancarie sono state vendute a piene mani prima e dopo l’esito degli esami. Perché? I test tenevano conto solo dei titoli di Stato detenuti per il trading, pari, dice Mediobanca Securities, a non più del 18%del totale messo a libro in media dai banchieri. Dunque, nascondevano la reale dimensione del rischio potenziale in situazioni avverse. Unicredit, Intesa Sanpaolo e Monte dei Paschi, per stare in Italia, hanno in casa titoli di Stato domestici ben oltre i propri patrimoni di vigilanza.
La frana dei titoli bancari sembrava poter essere fermata dall’accordo Merkel Sarkozy sul finanziamento del Fondo salva Stati e salva banche. Come il Tesoro Usa rassicurò Wall Street impegnandosi a evitare altri crac Lehman, così i governi dell’Eurozona cercavano di tranquillizzare le Borse stendendo un cordone sanitario attorno alla Grecia. Ieri l’industria finanziaria era stata salvata dagli Stati, oggi gli Stati salvano uno di loro sperando che tanto (o tanto poco?) basti a fermare il contagio e con ciò salvando per la seconda volta l’industria finanziaria. Ma l’operazione zoppica. L’effetto dell’accordo europeo è durato lo spazio di un mattino. Perché? Le spiegazioni tecniche non mancano. Intanto, quello di Merkel e Sarkozy è soltanto un pagherò e fino a quando l’assegno vero non viene staccato la Banca centrale europea s’impegnerà poco a comprare i titoli spazzatura: il suo bilancio ha limiti precisi; le garanzie degli Stati alla Bce valgono in quanto diventano reali.
L’Eurozona fatica a passare dal dire al fare, perché il senso di giustizia si declina all’interno di uno Stato in modo diverso da come si declina tra Stati associati ma indipendenti. Dentro il singolo Stato far pagare i ricchi può essere un atto di giustizia sociale; nelle relazioni interstatali viene visto come un premio ai furbi e ai fannulloni. Imporre virtù è sempre arduo, ma dentro uno Stato lo è un po’ meno che tra Stati.
Eppure, l’Eurozona impotente ha tuttora conti pubblici assai migliori e più trasparenti di quelli degli Usa. Nell’Eurozona, il debito pubblico comprende sia le obbligazioni emesse o garantite dal Tesoro che le obbligazioni degli enti locali. Il debito pubblico italiano al 120%del Pil tutto questo comprende. Il debito pubblico americano di cui oggi si parla, invece, è solo quello del Tesoro di 14.342 miliardi di dollari. Ma poi ci sono anche 2.446 miliardi degli enti locali e circa 5 mila miliardi delle agenzie governative che finanziano l’edilizia. Il debito pubblico americano vero è pari al 144%del Pil. E a fronte di questa montagna c’è un debito delle famiglie e delle imprese nettamente superiore a quello europeo.
Moody’s, S&P e Fitch sembrano usare due pesi e due misure. Giustificano il giudizio ancora eccellente sul debito americano con la possibilità che venga rimborsato stampando dollari che, grazie alla potenza politica e militare dello Stato emittente, vengono tuttora accettati nel mondo. Una specie di imperialismo, a questo punto, straccione. E tuttavia l’Europa disunita sul piano politico e senza un’idea condivisa di società sarà ancora più debole. E l’Italia dal governo inesistente in balia degli eventi.
Si può sperare ancora che la speculazione si fermi alla Grecia? Forse. Ma come garantirlo se non si mettono in campo risorse di capitale davvero enormi?
Gli eurobond saranno ottimi, ma sempre di debiti si tratta. E le banche non possono contrastare la crisi dei grandi debiti sovrani a colpi di aumenti di capitale. Ma fino a quando la politica non si darà l’obiettivo di smontare la frenetica industria finanziaria che deve macinare milioni di operazioni senza perdere tempo a valutare i rischi, non cambierà nulla e le tre agenzie bugiarde saranno sempre credute. E come potrebbe essere diversamente se i loro rating privati hanno corso legale nei bilanci dove servono a qualificare i titoli anche ai fini della Vigilanza?
Si potrebbe eliminare questo appalto improprio? Sulla carta sì. E una pluralità di agenzie aiuterebbe. Ma come farebbero le grandi imprese e gli Stati a emettere obbligazioni senza rating sui mercati dei capitali aperti e che effetto avrebbero rating fortemente contrastanti? Forse sta arrivando il momento di cercare una risposta coraggiosa alla questione di fondo rimasta fin qui inevasa: si può uscire dalla Grande Crisi, indotta dall’eccesso di finanza e di debito privato, che è all’origine degli attuali eccessi pubblici, con le vecchie politiche dei primi anni Novanta, appena un po’ riverniciate?
Massimo Mucchetti