Donato Masciandaro, Il Sole 24 Ore 28/7/2011, 28 luglio 2011
GIÙ LE MANI DALLE BANCHE ITALIANE
Le banche italiane sono state oggetto di un ennesimo attacco speculativo. L’eccesso di volatilità dei prezzi azionari ha per il Paese non solo i costi immediati legati alla crescente incertezza, ma può produrre danni ancor più gravi in un orizzonte temporale solo appena più lungo, se consentisse una riallocazione del controllo delle nostre banche a condizioni irrealistiche e inique rispetto ai valori fondamentali. Occorre che il Governo e le autorità di vigilanza mostrino di essere all’altezza della situazione. Non deve essere il nostro Paese a pagare alla fine i guasti del lassismo monetario e finanziario di cui sono responsabili, a titolo diverso, le autorità statunitensi e quelle europee. Le banche italiane sono ormai divenute il parafulmine ideale su cui i mercati stanno scaricando le contraddizioni nate dal salvataggio pubblico della finanza privata avvenuto - questo è il paradosso - non in Italia. La crisi finanziaria si origina e si sviluppa per l’eccesso di indebitamento che per oltre due decenni è stato consentito a banche, imprese e famiglie - soprattutto ma non solo - negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Nella situazione di emergenza, per evitare che l’eccesso di debito privato avesse effetti dirompenti sull’economia reale, si è dovuto far crescere il debito pubblico e il debito pubblico infruttifero (la moneta). Intanto l’economia mondiale entrava in recessione. Nella fase di maggiore turbolenza l’Italia mostrava disciplina monetaria, in quanto Paese dell’area euro, unita a disciplina finanziaria - avendo un sistema bancario sano e prudente - e anche una capacità di rispettare la disciplina fiscale nei conti pubblici, nonostante il pesante fardello del debito pubblico pregresso.
Passata l’emergenza, l’errore fondamentale dell’Europa è stato quello di seguire gli Stati Uniti nella politica di non regolare i mercati finanziari. Occorreva introdurre una riforma delle regole prudenziali, basata subito sui limiti alla leva finanziaria, uniti a coefficienti sulla liquidità, e a seguire i coefficienti di capitale. Occorreva inoltre capire come utilizzare al meglio - come integrazione alla regolamentazione prudenziale - forme di regole strutturali e di tassazione, mirate a disincentivare le attività finanziarie a più alto rischio sistemico. Non si è fatto nulla. O meglio si è fatto il contrario di quello che si doveva. Negli Usa e in Europa la regolamentazione prudenziale ha continuato a seguire gli stessi percorsi che già si erano mostrati fallimentari; nella vigilanza si è ulteriormente arricchita la pletora delle autorità di controllo - addirittura senza reali poteri nel caso europeo - invece di andare verso una razionalizzazione e un potenziamento della supervisione. Sono rimasti intatti i catalizzatori della crisi, quali i derivati non regolamentati e gli automatismi regolamentari basati sul rating delle agenzie (proprio contro le agenzie di rating è arrivata ieri la risoluzione bipartisan della commissione Finanze della Camera, con le pesanti accuse di aggiotaggio e destabilizzazione).
Così il mondo anglossassone si è trovato con Paesi con alto debito pubblico e privato, ma con una finanza prima salvata e poi irrobustita dalla non regolamentazione; inoltre, con la capacità, teorica ma concreta, di stampare dollari e sterline per far quadrare i conti. L’Europa della disciplina monetaria, ma senza la disciplina fiscale e l’unità politica, è diventata un bersaglio su cui scommettere. Ma non essendoci un debito pubblico europeo da attaccare, si punta contro gli Stati ad alto debito e le loro imprese che per la natura dell’attività sono nel contempo più esposte sul mercato dei capitali al rischio-Paese: le banche.
La morale di questa storia è che, di fronte all’ignavia del l’Unione europea, e nello stesso interesse del futuro dell’euro, occorre che le autorità nazionali - politiche e di vigilanza - utilizzino tutti i loro poteri e si assumano le loro responsabilità. L’eccesso di volatilità danneggia banche e mercati nell’immediato, ma può creare effetti negativi e duraturi ancor più gravi, se apre la strada a riallocazione della proprietà e del controllo che poco avrebbero a che fare con l’efficienza allocativa, e molto con l’attività predatoria. Che con una sana economia di mercato non c’entra nulla.