Ferdinando Camon, Avvenire 24/7/2011, 24 luglio 2011
IN UNA CELLA TROPPO PIENA UN POETA HA TROVATO LE PAROLE
È una di quelle notizie che ti allargano il cuore, ed è un vero peccato che rimanga soltanto sulla stampa locale (Corriere del Veneto, 22 luglio). Per chi, come me, ha passato la vita a insegnare Italiano ai ragazzi (e insegnare Italiano vuol dire educare a sentire il senso della parole, che deriva da quel che le parole sono e da quel che furono), la notizia ha del miracoloso. Eccola: un analfabeta ha scritto una poesia. Per di più, in carcere. E ha vinto un concorso. È un giovane detenuto del carcere di Treviso. Un carcere che ha, come tutti i carceri d’Italia, il problema del sovraffollamento: racchiude 280 detenuti, dovrebbe averne al massimo la metà. Non ha fondi sufficienti per dar vita a tutti i lavori rieducativi che ha in programma, e che comprendono musica, teatro e lingua. Ma ha insegnanti molto motivati, e ragazzi detenuti che ce la mettono tutta.
Inutile dire che i ragazzi detenuti sono tutti stranieri. Dunque hanno ragione coloro – e tra essi tutti i cattolici, Papa in testa – che si ostinano a ripetere che dagli errori della vita si esce con la rieducazione, e che il carcere come semplice afflizione non porta al riscatto. Chi ha visitato un carcere italiano in questi anni sa che immaginarlo come un luogo rieducativo richiede molta fantasia.
Quando un carcere contiene il doppio dei detenuti per i quali è stato costruito, vuol dire che in ogni cella non c’è spazio non dico per sedersi e pensare, o parlare con un altro, ma nemmeno per fare ciò che la vita richiede. Una cella per tre è occupata da sei, il che vuol dire che un letto a castello per tre è addossato a una parete e sulla parete di fronte sta un altro letto a castello per altri tre, il lavandino, microscopico, sta in un angolo, e il wc sta in mezzo alla cella.
Se i detenuti sono 6, il wc è usato spesso. Uno lo usa, gli altri lo guardano. Si può visitare le celle con molte limitazioni, osservandole da fuori, da un oblò. Dal centro del soffitto pende una lampada elettrica perennemente accesa. Ci sono celle con detenuti pudichi, che si seccano di essere osservabili in tutte le funzioni, e perciò hanno avvolto la lampadina con uno straccio di iuta: nella cella regna la penombra. La cella è un luogo di contagio coatto, i detenuti si trasmettono le malattie non solo fisiche ma anche psichiche.
Nevrosi, tic, turbamenti, ansie, depressioni. Chi gestisce il carcere deve badare che i detenuti stiano lì, nessuno evada, nessuno faccia o si faccia del male. Che in un luogo del genere uno possa apprendere, migliorare, acculturarsi, imparare, è desiderabile ma non è realistico. I carceri italiani non sono stati pensati e costruiti così, lo sono diventati perché la storia che stiamo attraversando li ha riempiti oltre ogni previsione.
Evidentemente nel carcere di Treviso è stato possibile fare il miracolo: portare un analfabeta a leggere e scrivere, capire le parole, capirle più a fondo degli altri, inventare parole e sensi e suoni, disporle secondo un ritmo, ’creare una poesia’, e vincere un concorso. Noi che siamo liberi sprechiamo molto più di quel che ci serve, sprechiamo tutto, e soprattutto le parole. Non le apprezziamo abbastanza. Le banalizziamo.
Comunichiamo banalità. La poesia è l’altra forma di comunicazione, la comunicazione non banale ma originale, che non spreca le parole ma le ricarica di senso e di peso. Scrivere una poesia vuol dire risalire a monte della comunicazione banale, arrivare a una comunicazione che comunica di più, che non è più comunicazione ma espressione. L’espressione è l’esatto contrario della repressione. È liberazione. Perciò è l’esatto contrario del carcere. Sulla via della propria liberazione, quel giovane detenuto exanalfabeta che ha scritto una poesia ha fatto il passo decisivo. Adesso è migliore di quando è entrato.