Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 27/07/2011, 27 luglio 2011
QUALCHE CALCOLO SULLE PROVINCE: CHE COSA FANNO, QUANTO COSTANO
Nella sua risposta a un lettore «Necessaria per ragioni morali l’abolizione delle Province (Corriere, 24 giugno), lei notava che «non esiste, che io sappia, uno studio accurato sui risparmi che lo Stato ricaverebbe dalla soppressione» delle Province. Le inviamo un nostro libro uscito un paio di anni fa, che contiene una proposta di riforma e, contestualmente, uno studio crediamo accurato e ragionale sui risparmi che potrebbero derivare dall’abolizione delle Province.
Alberto Mingardi
Direttore generale Istituto Bruno Leoni Torino
Caro Mingardi, lei mi ha segnalato un libro molto utile. S’intitola «Abolire le province» , è stato pubblicato nel 2008 dagli editori Rubbettino e Leonardo Facco, e contiene, a cura di Silvio Bocalatte, saggi di diversi autori. Alcuni capitoli, in particolare, confrontano il sistema amministrativo italiano con quelli della Spagna, della Germania e della Gran Bretagna. Ho appreso leggendolo che il dibattito sulle province accompagna la Repubblica sin dal momento della sua nascita. All’Assemblea costituente il partito di coloro che volevano abolirle era guidato da un grande economista, Luigi Einaudi, e da un illustre costituzionalista, Costantino Mortati. Il primo avrebbe voluto sostituirle con un consorzio tra comuni o con una circoscrizione intermedia non obbligatoria; il secondo con un consorzio obbligatorio «più ristretto della provincia e più omogeneo» . La loro posizione sembrò convincere la maggioranza e il risultato fu la proposta di un articolo in cui sarebbe stato scritto: «Il territorio della Repubblica è ripartito in regioni e comuni. La provincia è una circoscrizione amministrativa di decentramento regionale» . Ma quando l’articolo venne in discussione in aula gli abolizionisti furono sconfitti da coloro che preferirono lasciare le cose com’erano e, soprattutto, dal lavoro di lobby dell’Unpi (Unione province italiane). Il problema divenne nuovamente attuale quando il Parlamento, verso la fine degli anni Sessanta, cominciò ad approvare le leggi che avrebbero permesso il funzionamento delle regioni a statuto ordinario. Si sapeva che le province avrebbero perduto molte delle loro funzioni e Ugo La Malfa, in particolare, sostenne che «il riformatore deve avere il coraggio di innovare tagliando» . Ma anche in questo caso il partito conservazionista finì per prevalere e le province, benché private di molte delle loro funzioni originarie, resistettero alla falce della riforma. Da allora, se possibile, le cose sono peggiorate. Come ricorda Luigi Ceffalo, l’istituzione del sistema sanitario nazionale ha tolto alle province «le residuali competenze in ambito sanitario quali l’assistenza degli alienati e la conduzione di laboratori di igiene e profilassi» . Più tardi, è vero, alle province fu chiesto di collaborare all’elaborazione del piano regionale di sviluppo e di adottare un piano territoriale di coordinamento. Ma temo che questa disposizione abbia avuto l’effetto di rendere la macchina amministrativa ancora più complicata e ingombrante. Nel capitolo scritto da Andrea Giuricin vi sono infine molti dati relativi ai costi. Sulla base di cifre che risalgono al 2005 le province comportano spese per circa 16 miliardi di euro, di cui più di un miliardo e cento milioni andrebbero al loro personale politico: presidenti di Giunta, vice-presidenti, assessori, consiglieri e presidenti del Consiglio. Mancano invece, come ho scritto nella risposta precedente, i calcoli sul costo della loro soppressione. Ma questi potranno essere fatti soltanto quando il governo, se deciderà di proporne la soppressione, ci dirà come intende disporre degli immobili e del suo personale amministrativo.
Sergio Romano