Alfredo Faieta, il Fatto Quotidiano 27/7/2011, 27 luglio 2011
2011 FUGA DAI FONDI PENSIONE
La fuga dai fondi comuni d’investimento si fa precipitosa. La crisi economica morde e il tasso di risparmio degli italiani è andato assottigliandosi negli ultimi anni, sulla scia di salari e stipendi che bastano sempre meno a coprire i bisogni giornalieri. Così l’industria italiana del risparmio gestito non mostra una buona cera. Sono quasi 20 miliardi di euro i deflussi netti nel 2010, e quasi 15 miliardi nei soli primi sei mesi del 2011. I riscatti dei risparmiatori, che hanno chiesto indietro i loro soldi, hanno ancora una volta superato largamente le somme consegnate ai gestori per essere investite.
Il dato emerge dall’analisi dell’Ufficio studi di Medio-banca, che ha preso in esame 1003 tra fondi di varie tipologie (azionari, obbligazionari, immobiliari, fondi di fondi, ecc) e sicav (società d’investimento a capitale variabile, tipicamente di diritto lussemburghese), pari a più del 94 per cento del patrimonio totale gestito. Ovvero 233 miliardi di euro a fine 2010, un valore simile a quello del 1998, quando le borse si avviavano alla più grande fiammata rialzista, culminata nel 2001.
MA CRISI economica e paura dell’instabilità dei mercati non bastano a spiegare la fuga dalle società del risparmio gestito, quasi tutte in mano a banche e assicurazioni. I fondi continuano a essere molto costosi in relazione a quel che rendono. Nel 2010 il rendimento medio dei fondi analizzati è stato pari al 2,4 per cento, mentre chi ha investito in Bot con durata di 12 mesi ha guadagnato lo 0,9 per cento. Ma se la stessa analisi si estende agli ultimi dieci anni il dato è impietoso: i fondi hanno reso il 3,4 per cento (ovvero lo 0,3 per cento all’anno) contro il 28,5 per cento dei Bot. I quali hanno un rischio molto basso, tendenzialmente pari a zero, e commissioni di gestione pressoché nulle. Invece per i risultati così deludenti dei fondi le banche si fanno pagare bene: la gestione è costata in media ai sottoscrittori l’1,2 per cento delle somme depositate nel 2010 (un terzo del rendimento lordo), con punte del 2,5 per cento per quelli cosiddetti azionari. Costi elevati ai quali vanno aggiunte le provvigioni per chi distribuisce i prodotti (reti bancarie e promotori finanziari).
Se tutto questo non contribuisce a creare un clima favorevole intorno ai fondi comuni distribuiti dalle banche, anche i fondi pensione, che pure hanno avuto un afflusso netto positivo per 4 miliardi di euro nel 2010, arrancano nella gara di rendimento. Negli ultimi 10 anni quelli negoziali (istituiti sulla base di accordi tra le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali) hanno reso complessivamente il 14 per cento. Chi avesse scelto di continuare ad avvalersi del Tfr aziendale avrebbe maturato nello stesso periodo una rivalutazione delle somme del 30,1 per cento. Una distanza che dovrebbe far riflettere i gestori, spesso ancora strapagati a fronte di risultati modesti.
ALL’INTERNO di uno scenario generale negativo c’è però una categoria di fondi che brilla. Si tratta di quelli con base in Lussemburgo e Irlanda ma “esterovestiti”, cioè di proprietà di soggetti italiani, che nei soli primi sei mesi del 2011 hanno avuto una raccolta netta positiva di 2,4 miliardi di euro. “I gestori italiani hanno favorito lo spostamento all’estero, principalmente in Lussemburgo, di una quota significativa dei patrimoni in gestione”, sottolineano gli analisti di Mediobanca. “La trasparenza nel Granducato è inferiore a quella in Italia e gli utili vengono tassati al momento del realizzo e non della maturazione come avveniva in Italia prima della recentissima riforma che ha parificato il trattamento tributario (a partire dal corrente mese di luglio, ndr); quella dei fondi irlandesi è assai più mediocre”. Tutto ha il sapore di una storia che si ripete.