MARTA PATERLINI, La Stampa 27/7/2011, 27 luglio 2011
“Non scatena la fatica cronica” Scontro su un virus fantasma - Ci risiamo. La ricerca sulla sindrome da fatica cronica, nota in gergo come «CFS», è di nuovo al centro di un feroce dibattito scientifico
“Non scatena la fatica cronica” Scontro su un virus fantasma - Ci risiamo. La ricerca sulla sindrome da fatica cronica, nota in gergo come «CFS», è di nuovo al centro di un feroce dibattito scientifico. Un aspetto, in particolare: l’ipotesi che la causa sia un retrovirus sta vivendo momenti difficili. La saga inizia nel 2009, quando un gruppo americano del Whittemore Peterson Institute for NeuroImmune Disease, Rino, Nevada, descrive sulla rivista «Science» la presenza di uno «xenotropic murine leukaemia virus (MLV)-related virus» - contratto nell’acronimo XMRV - nei globuli bianchi del 67% dei pazienti osservati. E dimostra che il virus è in grado di infettare linee cellulari umane cresciute in laboratorio. Mai prima di quel momento era stata osservata l’infezione di questo tipo di retrovirus negli esseri umani. Una scoperta potenzialmente importante per la diagnosi e la cura di una sindrome ancora nebulosa: colpisce circa 17 milioni di persone nel mondo con una serie di sintomi, tra cui dolori muscolari, insonnia, perdita di memoria e fatica opprimente. Una fatica cronica che deve manifestarsi per almeno sei mesi consecutivi - che spesso diventano anni - e che non è alleviata dal riposo. Non esiste ad oggi un farmaco specifico e, secondo alcuni medici, la «CFS» sarebbe lo stadio finale di una serie di condizioni diverse, causate da più fattori scatenanti, come traumi ed esposizione a tossine o agenti infettivi. Vista l’incertezza, le reazioni allo studio coordinato dall’immunologa Judy Mikovits furono ambivalenti: entusiasmo tra i pazienti esasperati, scetticismo negli ambienti scientifici, che chiedevano controlli più approfonditi su malati e metodologie. Si sussegue quindi una fitta serie di lavori, svolti indipendentemente nei laboratori di tutto il mondo, che sembrerebbero smontare la connessione tra il retrovirus e la «CFS». Non sembrano esserci tracce di XMRV nei pazienti. I detrattori sostengono che il DNA di topo contenente sequenze endogene simili a MLV possa aver contaminato alcuni dei reagenti utilizzati e dei campioni clinici. D’altra parte, la Mikovits continua a difendere i propri dati. Inoltre, in un primo momento, un personaggio autorevole come Vincent Racaniello, virologo della Columbia University di New York, commentava nel suo seguitissimo blog, in un post intitolato «XMRV and CFS: it’s not the end», che i possibili problemi di contaminazione non implicavano automaticamente che gli studi della Mikovits fossero da considerare compromessi. Proprio con l’obiettivo di risolvere il dilemma, a fine 2010, il National Institute of Allergy and Infectious Diseases ha chiesto al virologo Ian Lipkin di coordinare uno studio multicentrico di pazienti con «CFS»: campioni di sangue prelevati da 150 malati e 150 controlli sani, provenienti da tutti gli Usa, sono stati affidati a tre gruppi l’US Food and Drugs Administration, il Centers for Disease Control and Prevention e lo stesso Whittemore Peterson Institute - per un’analisi indipendente sulla possibile presenza di XMRV. L’attesa per i test è subito alta e nel clima di eccitazione, poche settimane fa, si apre un nuovo capitolo della saga: una svolta importante, definitiva secondo alcuni, che ha visto «Science» chiedere, per la prima volta, al team americano di ritirare il lavoro del 2009. Secondo quanto riportato in due pubblicazioni apparse a inizio giugno sempre su «Science», XMRV non sarebbe altro che un artefatto di laboratorio, generato dalla ricombinazione di due pro-virus murini durante il passaggio di un trapianto di tumore umano della prostata nei topi. Come se non bastasse, non si è trovata alcuna correlazione con XMRV, sia sotto forma di virus infettivo sia come sequenza virale, e non è stata confermata la presenza di anticorpi contro il retrovirus in un gruppo di pazienti con «CFS», compresi quelli del lavoro originale. Anche Raccaniello, all’epoca tra gli ottimisti, intitola un post in modo inequivocabile: «XMRV is a recombinant virus from mice». E non basta. «XMRV non è un patogeno umano», commenta Jay Levy, virologo della California University, San Francisco, e autore di uno degli ultimi studi. «Fui io a isolarlo negli Anni 70. Dopo un falso allarme iniziale, che aveva messo in subbuglio l’università, i test chiarirono l’impossibilità di trasmissione del retrovirus all’ uomo. Bastava leggere i dati. Molte linee di ricerca hanno in effetti suggerito che la fatica cronica possa avere un’origine infettiva, ma non si tratta di XMRV ed è quindi tempo di dirottare energie e fondi altrove per cercare la vera causa della sindrome. Lo dobbiamo ai pazienti, che devono sapere che l’assunzione di terapie antiretrovirali non arrecherà loro alcun beneficio. E, anzi, è rischiosa». Il gruppo della Mikovits, tuttavia, non demorde, sostenendo che sia prematuro il ritiro dei propri dati. «I risultati discordanti dagli altri gruppi sono da imputare all’eterogeneità dei pazienti, alla distribuzione geografica del virus e alle diverse metodologie», commenta Vincent Lombardi, collega della Mikovits. «Il nostro interesse primario è individuare dei marcatori biologici che rendano la diagnosi e la cura della sindrome più accessibile. Ora, più che mai, lavoriamo sul punto più attaccato, vale a dire che XMRV non sia patogeno. Stiamo analizzando gli anticorpi contro il virus, che, secondo noi, sono prodotti dai pazienti affetti da CFS e stiamo sequenziando - non siamo i soli - il genoma di alcuni». Nella controversia un ruolo fondamentale lo stanno giocando le associazioni dei malati - c’è un network anche in Italia - a cui spetta il ruolo cruciale di fare da tramite tra pazienti, ricerca di base e medici. Kimberly McCleary, presidente della «CFIDS Association of America» non usa mezzi termini: «Gli ultimi dati che sgretolano la connessione XMRV-CFS sono solidi. Ora si deve andare oltre».