FRANCESCO SEMPRINI, La Stampa 27/7/2011, 27 luglio 2011
Nella città-dormitorio della “resistenza ariana” - L’ impressione che si ha percorrendo la «Skullerud», almeno a prima vista, è quella di essere in una città dell’Europa orientale, una di quelle il cui profilo è definito da casermoni che dominano gli interminabili viali intitolati agli eroi simbolo del Patto di Varsavia
Nella città-dormitorio della “resistenza ariana” - L’ impressione che si ha percorrendo la «Skullerud», almeno a prima vista, è quella di essere in una città dell’Europa orientale, una di quelle il cui profilo è definito da casermoni che dominano gli interminabili viali intitolati agli eroi simbolo del Patto di Varsavia. Invece ci troviamo a migliaia di chilometri da quella che era la Cortina di Ferro. Siamo a Bøler, estrema periferia di Oslo, quindicimila abitanti, la parte più grigia della ricca e pacifica capitale norvegese, costruita tra gli Anni 50 e 60 per sistemare operai, lavoratori temporanei e immigrati. Borgate-satellite che diventano humus perfetto per far germogliare fenomeni sociali e politici figli di rabbia e disagio. Una quindicina di ani fa Bøler era il feudo dei «Boot Boys» (i ragazzi con gli anfibi), uno dei gruppi neonazisti più famosi e temuti della Norvegia, protagonisti di scorribande e crimini. Un manipolo di guerrieri metropolitani che facevano di questo quartiere un territorio off-limit, e non solo per gli immigrati. Ce lo ricorda Mohammad Ahmed, l’autista che ci accompagna in questo viaggio tra passato e presente: «Cosa andate a fare a Bøler? Non è una zona raccomandabile». Ahmed vive ad Oslo da vent’anni, è di origine somala, un musulmano, come altri 115 mila in tutta la Norvegia. Come quelli che il suprematista Breivik voleva eliminare e come quello che i Boot Boys uccisero il 26 gennaio 2001. Si chiamava Bejamin Labaran Hermansen, aveva 15 anni, era figlio di un norvegese e una ghanese, e viveva a Holmlia, non lontano da Bøler, quartiere ad alto tasso di immigrati dove gli skin spesso sconfinavano per condurre raid. Per l’omicidio vennero fermati cinque neo-nazi, tre giudicati per direttissima: Joe Erling Jahr, Ole Nicolai Kvisler, e Veronica Andreassen, la fidanzata di Kvisler. Finiscono condannati a 18, 17 e 3 anni. «Lo ricordo ancora», dice Jan-Owe Gulbrandsen, proprietario di un negozio di ottica nel Bøler Senter, il centro commerciale del quartiere. Quando entriamo è semideserto. Sul grande schermo del bar trasmettono la conferenza stampa di Geir Lippestad, l’avvocato di Breivik: i pochi clienti lo indicano annuendo con la testa. «Erano tempi bui, allora, c’era da avere paura. Oggi quei tipi non si vedono più, alcuni sono in galera, altri sono scappati all’estero, altri ancora sono diventati cittadini normali, di quell’esperienza gli sono rimasti solo i segni sui corpi». I segni delle botte prese, oltre che di quelle date, e dei tatuaggi. Perché i «Boot Boys» erano skin in piena regola, con tanto di ragnatela sul gomito. Nascono intorno al 1987 sui marciapiedi di Bølerlia, la via principale del quartiere dove i casermoni stile sovietico sono affiancati da palazzine a mattoncini costruite di recente per addolcire il profilo della periferia. Il fondatore è Ole Krogstad, il «vichingo», già noto alle forze dell’ordine per aver dato fuoco a una moschea e danneggiato i muri di una sinagoga. Legano subito con gruppi stranieri, inglesi e polacchi, ma soprattutto con gli svedesi, bei confronti dei quali nutrono una sottomessa ammirazione. Da qui la grande gioia quando vengono ammessi nel Vam, «Resistenza ariana», una specie di network pan-scandinavo. Le loro scorribande durano sino al 2001, sino ai fatti di Holmlia. Ce ne parla Anniken, la responsabile della biblioteca pubblica di Bøler, consultando alcuni articoli salta all’occhio il nome di Geir Lippestad, era lui l’avvocato di Kvisler. Difendere personaggi del genere è una sua prerogativa, ci dicono, nonostante sia un laburista come i 68 ragazzi uccisi al raduno di Utoya. Anders Brievik lo avrebbe scelto per quello. Il collegamento fa pensare a un legame tra il suprematista della porta accanto e i neonazi. «Lo escluderei, Breivik è un cane sciolto», ci dice Carl Fredrik Meyer. Era un responsabile dei servizi sociali di Oslo, nel 2002 alfiere di una campagna per ripulire i quartieri ghetto dai gruppi neo-nazi, in particolare Bøler. «Abbiamo speso quasi 100 mila euro ed è stato assai difficile. Erano molto radicati, forti, e avevano anche un certo seguito». Oggi allora non esistono più? «No, ci sono ancora ma la loro attività è meno palpabile, dalle strade si sono spostati sul web e operano attraverso la rete». Bøler è cambiata: ieri una fiaccolata ha ricordato le vittime del 22 luglio. «Il fatto che davanti a questi casermoni non si vedano più i ragazzi con gli anfibi non vuol dire nulla - dice Meyer -. Quello che è successo venerdì dimostra che una tastiera può essere più tagliente di una lama».