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 2011  luglio 26 Martedì calendario

MORTE DI UNA SCOUT. QUEI 50 PASSI DI LIDIA INSIEME ALL’ASSASSINO - C’

era la galaverna che se lo chiamava, il freddo. E Lidia forse si tirò su il bavero, uscendo dai bagliori al neon dell’ospedale di Cittiglio e infilandosi nel buio del parcheggio, lì davanti. Potevano essere cinquanta passi fino alla Panda, ma se ci fossero stati già i cellulari di sicuro avrebbe chiamato qualcuno, così, giusto per farsi fare compagnia. Ci fossero stati i cellulari, del resto, quella sera del 5 gennaio 1987, forse l’avrebbero salvata o forse avrebbero trovato il suo assassino in pochi giorni, incastrandolo in un incrocio di celle telefoniche. Invece Lidia Macchi, vent’anni, studentessa di legge alla Statale di Milano, capo guida scout nella sua parrocchia di Varese, ciellina piena di passione per il Signore e d’amore per il prossimo suo, s’inoltrò ancora da sola in quell’oscurità gelata. La trovarono una quarantina di ore dopo, la mattina del 7, faccia a terra, pugni chiusi, i collant infilati alla rovescia da qualcuno che non sapeva bene come fare per rivestirla, massacrata da trenta fendenti di un coltello da boyscout, accanto alla sua Panda, nel bosco di Sass Pinì, posto da tossici e da coppiette in vena d’effusioni: posto non da lei. Aveva avuto un rapporto sessuale, probabilmente il primo della sua vita, e quasi di certo aveva subito violenza. Il cadavere era coperto da cartoni, come per pietà o pudore. Il pm di turno era Agostino Abate, un giovane salernitano silenzioso che aveva fatto della poliomielite patita da bambino una molla per superare qualsiasi ostacolo (quando più tardi infilò la Lega dentro le inchieste per tangenti di quel tempo, Bossi suggerì ai suoi militanti di «raddrizzargli la schiena a randellate» ...). Ma la sfida che Abate si trovò davanti era quasi impossibile. Lidia Macchi aveva una vita senza ombre, era di quelle figlie che qualsiasi genitore vorrebbe. Famiglia cattolica ma non bigotta, papà e mamma gran lavoratori, una casetta dignitosa nella frazione varesina di Casbeno, nemmeno un filarino, solo libri di legge, riunioni di Cl e gite degli scout. Il 10 gennaio vanno in cinquemila ai suoi funerali nella basilica varesina di San Vittore Martire. «Prendete il mostro», » , invocano pregando. Perché solo un mostro può essere il colpevole di un simile abominio. E invece, in quei primi giorni di freddo e di confusione, quando Enzo Tortora dagli schermi di Giallo invita gli inquirenti ad avvalersi di uno strumento d’indagine ancora quasi ignoto, la prova del Dna, spunta un colpevole impossibile, un mostro inverosimile: il prete bello. Don Antonio ha 32 anni, è di Torre del Greco, il suo cognome non conta più perché non è il caso di esporlo di nuovo — dopo tanto tempo — a una gogna mediatica. Era il sacerdote che coordinava gli scout ed era amico fraterno di Lidia. Si fossero già usati i cellulari, il suo destino si sarebbe risolto con un controllo di tabulati e celle telefoniche: dov’era la sera del 5 gennaio? E dove nelle 40 ore successive? (Lidia era stata uccisa poco prima del ritrovamento del corpo: con chi era stata in quelle tante ore di nulla?). Invece il pm Abate fu costretto a torchiare per un giorno e una notte don Antonio e tre suoi confratelli, soprattutto per verificare un alibi ballerino. I sospetti trovavano forza in due lettere. La prima l’avevano scoperta nella borsa di Lidia, era una lettera d’amore, divenne quasi una prova a carico: «... dimmi perché sorridi, perché il tuo sguardo è così dolce, luminoso e reale, perché sollevi gli occhi al cielo e perché io non posso che arrendermi alla realtà... non so se ci sarà un futuro insieme per noi. Amen» . La seconda lettera, anonima e mandata ai Macchi, era un delirio mistico («il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace...» ) forse una confessione, e si chiudeva con un cerchio: un simbolo sacro o addirittura un’ostia, pensarono in tanti. L’inchiesta non andò lontano: su Agostino Abate si scatenarono attacchi pesanti, il fascicolo gli fu tolto e poi restituito, i sacerdoti furono tutti scagionati da una delle prime prove di Dna mai viste in Italia. Chi andò lontano fu invece don Antonio, comunque travolto dallo scandalo e, com’era inevitabile, spedito all’estero a ritrovare un equilibrio spazzato via. Più di vent’anni dopo la storia di Lidia è tornata sui giornali. Vanno di moda i cold case, i delitti insoluti. Un ex imbianchino, Pippo Piccolomo, che all’epoca del delitto viveva a Caravate, poco lontano dal bosco maledetto di Sass Pinì, finisce in galera per l’assassinio di una anziana amica, Carla Molinari, corpo massacrato, mani mozzate per impedire agli investigatori di trovare tracce sotto le unghie della vittima, che ha lottato, ha graffiato. Piccolomo ha graffi addosso. E le sue figlie, liberate dall’incubo di un papà brutale, raccontano ai giudici: «Quando ammazzarono Lidia, nostro padre ci diceva di essere stato lui» . Spacconate da orco d’osteria? Quasi certamente. Ma più di recente, prima di finire in manette, quando litigava con qualcuno, Pippo ricorreva a una minaccia tremenda: «Ti faccio fare la fine della Molinari, ti taglio le mani e le faccio bollire» . Il fatto che sia un mostro perfetto non fa di lui un perfetto colpevole per qualsiasi delitto. Che sia quel mostro, quello che esorcizzavano pregando i varesini il 10 gennaio dell’ 87 al funerale di Lidia, è cosa apparsa molto improbabile anche a mamma Paola: «Noi vogliamo la verità vera» . Nulla, nella vita di quest’uomo infernale incrocia la vita di Lidia. Ventiquattro anni dopo, non basta un colpevole di comodo.
Goffredo Buccini