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 2011  luglio 26 Martedì calendario

IL SACRO (E

Il PROFANO) NEI CONTI DEL SAN RAFFAELE - La domanda è: si poteva evitare il crac del San Raffaele, travolto, secondo le prime stime, da un miliardo di debiti? La risposta è tristemente positiva. Sì, si sarebbe potuto, se nel 2006 il Parlamento italiano avesse approvato una legge diversa sull’impresa sociale.
Questa legge, infatti, fa sì obbligo di depositare i bilanci a chi voglia fregiarsi di tale qualifica, ma non costringe gli enti non commerciali ad assumerla. La Fondazione Monte Tabor, da cui dipendono il grande ospedale San Raffaele di Milano, la prestigiosa Università Vita e Salute, i reputati centri di ricerca e altre, meno commendevoli attività, è un ente non commerciale che avrebbe tutte le caratteristiche per venire considerato impresa sociale: suo compito è infatti la cura delle persone senza scopo di lucro. Ma la fondazione di don Luigi Verzé non ha mai richiesto quella qualifica e ha così continuato a coprire i propri conti con il più impenetrabile segreto.
Avesse depositato i bilanci civilistici e consolidati in Camera di commercio, la Fondazione Monte Tabor si sarebbe sottoposta allo scrutinio di banche, fornitori e giornalisti. Magari non subito, ma certo prima del 2011, qualcuno avrebbe messo a confronto i numeri di don Luigi Verzé con quelli di altri imprenditori della sanità, organizzati in società di capitali, e avrebbe fatto squillare l’allarme quando il buco era meno profondo. Anche senza esservi obbligati dalla legge, don Verzé e i suoi collaboratori avrebbero comunque potuto far certificare i bilanci e pubblicarli. Hanno deciso di non farlo. In loro sembra aver prevalso l’antico timore che il render conto al gregge diminuisca il carisma del pastore e la sua capacità di attrarre risorse per la missione. Una preoccupazione che fece scivolare lo stesso Vaticano nel machiavellismo più secolare che si usa il Banco Ambrosiano per sostenere Solidarnosc in Polonia, senza curarsi di come il cattolicissimo banchiere Roberto Calvi si procura i fondi. Ma l’opacità trova un incentivo nella stessa legge sull’impresa sociale.
Quel provvedimento codifica quanto dell’economia sta sul mercato senza perseguire un profitto da ripartire ma senza per questo assumere la forma cooperativa, peraltro assai diffusa se ormai le cooperative sociali sono 14 mila con 350 mila addetti. Ebbene, il legislatore non ha previsto l’obbligo universale di qualificarsi come impresa sociale, anche perché non ha inteso estendere alla medesima i benefici dati agli enti non commerciali.
Gli enti non commerciali continuano ad aver diritto a esenzioni fiscali e alla riservatezza contabile, salvo depositare sommari rendiconti in prefetture non sempre rigorose nell’esigerli. Tale regime ha una sua ragione fino a quando gli enti si limitano a erogare rendite derivanti da lasciti e donazioni o se l’attività resta, in lieta povertà, di piccola dimensione. Ma nel momento in cui gli enti diventano ospedali, case di riposo, centri di ricerca, università che muovono ingenti somme, ancorché senza capitale sociale, il regime originario perde senso. La furbizia italica tiene in vita tali enti, con annesse opacità, restringendo le esenzioni ad alcune attività economiche. Ora, il San Raffaele fa emergere la pericolosità delle furbizie. E lancia una sfida al mondo cattolico, nel cui seno è maturata l’esperienza comunque grande di don Verzé, ma anche alla classe politica.
Nel 1982, ci fu un ministro del Tesoro, Nino Andreatta, che seppe sfidare il Vaticano per liquidare l’Ambrosiano di Calvi e salvare quel che la legge consentiva della cosiddetta banca dei preti. Andreatta, democristiano con forte senso dello Stato, sapeva discernere il sacro dal profano. Oggi, mentre la stampa specula sulle mire di Comunione e liberazione o dell’Opus dei, è il Vaticano a scendere in campo per preservare il tanto di buono che c’è nel San Raffaele. La nomina di Enrico Bondi, non maturata oltre Tevere, fa sperare che si faccia piena luce sul passato e che, in futuro, il nuovo San Raffaele riferisca il dare e l’avere come se fosse una società quotata in Borsa o una grande cooperativa. Diversamente il risanatore della Parmalat, che per il San Raffaele non ha voluto compensi, se ne andrà. D’altra parte, se nei primi anni ’ 90 don Verzé poteva rifiutare il soccorso del banchiere Enrico Cuccia, perché dava a Dio prima che a Cesare, è pur vero che a un certo punto anche Cesare ha diritto alla sua parte.
Il governo italiano non può delegare la trasparenza all’impegno facoltativo di soggetti privati che rispondono a uno Stato estero, e deve dunque affrontare due problemi: a) garantire che il San Raffaele vada a chi— fondazione, impresa privata o pubblica— metta in campo le più elevate risorse professionali e finanziarie riducendo al minimo gli oneri per i fornitori e per lo Stato e, al tempo stesso, possa assicurare alla ricerca una libertà non inferiore a quella, ampia, che dava don Verzé; b) sciogliere le ambiguità della legge sull’impresa sociale: si detassino pure gli utili qualora concorrano a formare patrimoni destinati all’investimento e comunque non distribuibili né durante l’attività né alla sua chiusura, ma, da una certa soglia in su, si impongano anche frequenti e pubblici rendiconti e chiare assunzioni di responsabilità; tanto più quando l’impresa sociale lavori per il Servizio sanitario nazionale e magari possa ricevere, come il San Raffaele, il 5 per mille.
Massimo Mucchetti