MATTIA FELTRI, La Stampa 26/7/2011, 26 luglio 2011
L’eterna maledizione della poltrona di Guardasigilli - Alfredo Biondi, primo ministro della Giustizia in un governo di Silvio Berlusconi, fu carinamente definito “capitano di lungo sorso” da un deputato che, in cambio della battuta, ottenne imperituro anonimato
L’eterna maledizione della poltrona di Guardasigilli - Alfredo Biondi, primo ministro della Giustizia in un governo di Silvio Berlusconi, fu carinamente definito “capitano di lungo sorso” da un deputato che, in cambio della battuta, ottenne imperituro anonimato. Il successore di Biondi, Filippo Mancuso, si prese del “cane ringhioso” e del “vecchietto bizzoso” da Lamberto Dini, che poi era il suo premier (in compenso Mancuso aveva consegnato a Dini e al Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, il titolo di “compagni di merende”) e che non si oppose alla sfiducia personale che, dopo una serie reiterata e quasi tignosa di ispezioni ministeriali alla procura di Milano, costò a Mancuso il posto. Subito dopo arrivò Vincenzo Caianiello, il quale durò tre mesi soltanto ma sufficienti perché fosse destinatario del solito aggettivo, “ringhioso”, accoppiato però al sostantivo “trombone”; l’opera fu di Antonio Di Pietro che Caianiello aveva definito “protervo” nel non spiegare i motivi delle dimissioni dalla magistratura. Ne sono passati di Guardasigilli sotto ai ponti. Toccò anche a Clemente Mastella (un “tonno in scatola”, secondo Beppe Grillo) in onore del quale venne aperto un sito internet: dementemastella.blogspot.com. Non è che Mastella fosse arrendevole: le sue liti con Luigi De Magistris sono ancora attualità. E, prima di lui, ne buscò anche il leghista Roberto Castelli, uno “con la faccia di un tassista abusivo, ma senza averne l’integrità morale”, secondo il ritratto di Daniele Luttazzi. Ecco, tutto questo viene accennato a beneficio del ministro della Giustizia in pectore, perché sappia a che cosa sta andando incontro. Il battutario - o catalogo dell’insolenza - è un accessorio del mestiere di titolare della Giustizia almeno da diciotto anni e cinque mesi, cioè dal giorno in cui - 5 marzo 1993 - quel galantuomo di Giovanni Conso presentò un decreto concordato con il presidente del Consiglio (Giuliano Amato) e con Scalfaro che comportava la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti; il tentativo di dare un indirizzo più politico e meno isterico al repulisti di Mani Pulite fu respinto, fra gli altri, dal procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, che davanti alle telecamere previde la «totale paralisi delle indagini». Scalfaro rifiutò di firmare il decreto e non se ne fece nulla e lo stesso accadde l’anno dopo, quando ci provò Biondi. Se il decreto Conso fu detto “colpo di spugna”, quello di Biondi “salvaladri” poiché rivedeva i termini della custodia cautelare. Stavolta le telecamere toccarono direttamente a Di Pietro: a nome di tutto il pool annunciò che, siccome non c’era più modo di indagare, non avrebbero più indagato. Allora andava così, sebbene uno come Mastella direbbe che non è cambiato granché: è convinto di essere stato inquisito in conseguenza dell’indulto, della riforma sulle intercettazioni telefoniche e per lo scontro con De Magistris: quando si dimise, favorendo la caduta del governo di Romano Prodi (gennaio 2008), lo fece perché nessuno dell’esecutivo gli offriva solidarietà, e tutti appoggiavano tacitamente le politiche e i referenti del suo avversario, Di Pietro. Fu una sorpresa per un uomo accorto e solido come Prodi: al primo giro (1996-98), si era rimesso a un giurista colto e raffinato come Giovanni Maria Flick che qualcosa riuscì a portare a casa (comprese importanti novità sull’uso delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento) nonostante le solite fiere opposizioni dell’Anm e della procura milanese, qui nella persona di Gerardo D’Ambrosio. E però quella legislatura (che vide alla Giustizia anche Piero Fassino, non proprio un nemico giurato delle procure, e nonostante ciò, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, Borrelli denunciò l’assenza di «una politica coerente e globale per la lotta alla corruzione», e Oliviero Diliberto, che si procurò grane di altro tipo, col rimpatrio di Silvia Baraldini) fu quella del fallimento della Bicamerale che prometteva anche la separazione delle carriere e che, in una memorabile e definitiva intervista, Gherardo Colombo giudicò «figlia del ricatto». Rimane da notare che all’elenco mancano Angelino Alfano e le sue riforme, comprese quelle epocali, che (forse) saranno il compito più gravoso del guardasigilli che verrà.