FRANCESCO GUERRERA, La Stampa 26/7/2011, 26 luglio 2011
LA FINANZA PIÙ CAUTA DELLA POLITICA
Il banchiere stava cercando le parole giuste per comunicare la sua frustrazione nei confronti della classe politica americana ma senza offendermi. «Beh – disse alla fine, quasi imbarazzato - siamo ormai in una situazione… un po’…. all’italiana, ecco».
Sarà forse perché l’avevo disturbato di domenica per chiedergli un parere sulla paralisi nei negoziati sul debito Usa, ma il paragone non era proprio un complimento.
L’America come l’Italia: una nazione dove il caos politico ed il «corto-termismo» della classe dirigente stanno contagiando l’economia, mettendo a rischio la fiducia dei mercati e separando sempre di più il Paese reale dai governanti.
L’ultimo dramma di Washington è il braccio di ferro tra repubblicani, democratici e la Casa Bianca su come e quanto alzare il «tetto» del debito pubblico americano prima della scadenza del 2 agosto. La battaglia è sui numeri, ma la sostanza è concreta. Senza un aumento del tetto, che in questo momento è di 14,3 triliardi di dollari, il governo federale non potrà pagare gli stipendi dei dipendenti, le pensioni e le bollette mediche per i poveri e gli anziani.
Ec’è di peggio: se non c’è un accordo prima del 2, lo Zio Sam andrà in «default», smettendo di pagare gli interessi su obbligazioni del Tesoro che sono in mano un po’ a tutti: dai fondi pensioni per pompieri e insegnanti al governo cinese.
Un default da parte degli Stati Uniti potrebbe avere conseguenze devastanti sulla finanza mondiale, distruggendo la credibilità dei beni del Tesoro americano – uno dei pochissimi «safe havens», i porti sicuri in cui gli investitori attraccano in tempi di tempesta.
Se non mi credete, chiedete pure al Fondo monetario internazionale. Il guardiano dell’economia mondiale, generosamente finanziato dal governo Usa, ieri non ha usato perifrasi per spiegare la situazione.
La sfiducia dei mercati nei confronti del debito americano – ha detto l’Fmi nella sua diagnosi annuale dell’economia americana - «potrebbe portare ad effetti negativi enormi ed universali».
In realtà, il danno è già stato fatto: lo spettacolo turpe di un Congresso impegnato solo a proteggere gli interessi di partito (non alzare le tasse per i repubblicani, non tagliare le spese per i democratici) e di un presidente Obama indeciso e non decisivo, ha già portato le agenzie di affidabilità creditizia a minacciare un downgrade, un declassamento del debito Usa anche se le varie fazioni dovessero raggiungere un accordo questa settimana.
Il declassamento non è cosa da tecnici. Una bocciatura degli Stati Uniti da parte delle agenzie di credito segnalerebbe ai mercati che nemmeno una superpotenza con l’economia più grande del mondo può essere considerata senza rischi – un verdetto che fa venire i brividi agli investitori.
Come mi ha detto il capo di uno dei colossi dei fondi d’investimento nel weekend, «nei prossimi giorni, Washington qualcosa deciderà e probabilmente eviterà un default. Il problema è che un accordo dell’ultima ora potrebbe non essere abbastanza per sfuggire ad un costossissimo downgrade”.
L’aspetto forse più grave nella saga del debito americano è che si sarebbe potuto facilmente evitare. A differenza della situazione sull’altra sponda dell’Atlantico – in cui Paesi come Grecia e Irlanda non avevano proprio più soldi –, l’America non ha problemi di liquidità.
Il «tetto» sul debito e i negoziati per rinnovarlo sono un artificio della politica, inventato nel 1917 quando gli Usa intervenirono nella Prima guerra mondiale e il Congresso introdusse un meccanismo per impedire al Presidente di spendere fondi pubblici senza consultarsi con il Parlamento.
E’ vero che il debito americano si sta gonfiando in maniera sproporzionata rispetto alla crescita economica, ma il potere degli Stati Uniti sui mercati mondiali e la credibilità (fino ad ora, almeno) delle sue politiche finanziarie permettono all’America di farsi finanziare dagli investitori come e quanto vuole.
La «crisi» del debito è quindi solo una crisi di una classe politica che ha saputo almeno otto mesi prima che il Tesoro americano avrebbe esaurito i fondi il 2 agosto. Ma invece di aprire discussioni serie, Obama e i baroni del Congresso hanno preferito ignorare la realtà fino all’ultimo, per poi strumentalizzarla con un occhio alle elezioni presidenziali del prossimo anno: un approccio veramente «italiano».
«Gli europei staranno pensando che siamo pazzi», mi ha detto un funzionario della Federal Reserve, la banca centrale americana. «Loro hanno una crisi vera e noi ci siamo messi a danzare sul baratro per scelta».
I mercati fino ad ora hanno risposto in maniera molto, forse troppo, composta.
Anche ieri, dopo il nulla di fatto del weekend, la borsa di New York ha perso un pochino di terreno, ma non tanto da far pensare al panico. I mercati delle obbligazioni sono un po’ più nervosi, ma anche lì non ci sono segnali di paura inconsulta.
Il che, però, non vuol dire che gli investitori rimarranno immuni alle convulsioni di Washington. L’errore più stupido da parte di Obama e dei leader repubblicani e democratici sarebbe di dare per scontata l’acquiescenza dei mercati.
Uno dei miei primi maestri – un vecchio marpione del giornalismo finanziario britannico – era solito paragonare la fiducia dei mercati ad una vasca da bagno in un hotel di lusso: l’acqua c’è ed è tanta, ma basta un piccolo errore, un gesto sbagliato, per far saltare il tappo e farla scomparire.
I politici americani questo lo dovrebbero sapere, visto che sono passati meno di tre anni dal fallimento della Lehman Brothers, un evento che tolse l’acqua, e pure l’ossigeno, all’economia mondiale.
Dopo una crisi devastante causata dalla miopia delle banche, sembra quasi che Washington voglia prendersi la rivincita, creando un pandemonio che rischia di minare le fondamenta della finanza globale. Ed in questo caso i mercati, spesso accusati di avere la memoria corta, sembrano essere più lungimiranti dei politici.
Siamo ormai nel bel mezzo di una partita di roulette russa, ed ogni ora che passa senza un accordo è un nuovo colpo alla fiducia degli investitori nel bastione del capitalismo mondiale.
Per il bene di tutti, speriamo che Washington impari da Roma anche l’arte del compromesso e dell’arrangiarsi a tutti costi.