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 2011  luglio 26 Martedì calendario

VITA DI CAVOUR - PUNTATA 137 - UN INTRIGO DI FRATI

Mancava l’approvazione del Senato.

Al Senato Cavour prevedeva una resistenza più dura, ma non dura come fu. Tre vescovi - Billiet, Calabiana e Ghilardi - s’appropriarono dell’idea lanciata da qualche clericale di raccogliere il milione che serviva allo Stato per pagare le congrue e il resto. In questo modo si sarebbe tolta di mezzo la giustificazione economica del provvedimento. L’astuzia stava nel fatto che lo Stato, accettando, avrebbe implicitamente ammesso quello che la legge Rattazzi tentava di negare, e cioè che fosse un diritto della Chiesa possedere ed amministrare beni propri al di fuori del controllo dell’autorità civile. I vescovi ne avevano parlato al re e il re se n’era mostrato entusiasta. Chiesta a Roma l’autorizzazione di far l’offerta, il Papa l’aveva concessa subito. Cavour fu avvertito pochi giorni prima che in Senato si svolgesse la seduta fatidica.

Che avrebbe potuto fare?

Niente. Certo, non poteva impedire a un senatore come Calabiana di chieder la parola e far la sua offerta. E infatti il 26 aprile, quarto giorno di dibattito, Calabiana ebbe la parola. Due giorni prima l’altro vescovo, Ghilardi, aveva consegnato al re la proposta ufficiale. Si ponevano al governo tre condizioni: che il prestito venisse considerato provvisorio «sino al definitivo concerto con la Santa Sede»; che il riparto della somma avvenisse su tutto l’asse ecclesiastico; che per raccogliere il denaro si potesse far ricorso ai «benefizi vacanti». Calabiana concluse: «...affinché il ministero possa essere in grado di spiegare, se o no il pensiero nostro, di cui diamo quest’oggi officiale preventiva contezza, incontri il gradimento del governo del Re».

Quindi: i vescovi offrivano il milione e non c’era più ragione di sopprimere i conventi.

E già. Cavour chiese subito la parola. Non c’era molto da fare. Diede atto ai monsignori del loro patriottismo, ma definì la proposta « gravissima ». La sera stessa riunì il consiglio dei ministri e si dimise.

Addirittura.

La legge era discutibile, ma la laicità dello Stato non poteva essere messa in discussione. Era ovvio che i vescovi avevano ottenuto l’approvazione del re. Eravamo in Senato! Gli altri ministri si dimisero con lui. Del resto si trattava di quattro personaggi in tutto.

In che senso?

Il governo era ormai formato da cinque persone. Cavour, Rattazzi, Paleocapa, Cibrario, Durando, che aveva preso il posto di La Marmora alla Guerra. Cavour teneva Esteri e Finanze, Rattazzi oltre alla Giustizia gli Interni: Ponza di San Martino era stato allontanato dopo una manifestazione contro la pena di morte. Ponza di San Martino era quello che non s’era accorto dell’agguato di massa sotto casa di Cavour. I due del connubio controllavano i quattro ministeri chiave. In ogni caso, adesso erano tutti a casa.

E come facevi però a sostituire Cavour? La maggioranza in Parlamento non ce l’aveva lui?

Cavour era nello stesso tempo potentissimo e stimatissimo. E il re non aveva più Revel da mandare alla Camera, dato che Revel aveva votato contro la Crimea. Chiamò tuttavia Durando, le provava tutte per sbarazzarsi del conte. Ma era difficile, il presidente incaricato non aveva la personalità adatta, non era veramente un’alternativa. La Marmora, che stava a Genova e non era ancora partito, tornò di corsa a Torino per scongiurare il re di ripensarci. Vi furono manifestazioni, ricominciava una certa agitazione di cui s’era persa memoria. Studenti in piazza, grida. Infine intervenne Massimo d’Azeglio. « Maestà - scrisse al sovrano - creda a un suo vecchio e fedele servitore, che nel servirla non ha mai pensato che al suo bene, alla sua fama e all’utile del Paese; glielo dico con le lagrime agli occhi ed inginocchiato ai suoi piedi, non vada più avanti nella strada che ha presa. È ancora in tempo. Riprenda quella di prima. Un intrigo di frati è riuscito in un giorno a distruggere l’opera del suo regno, ad agitare il Paese, scuotere lo Statuto, oscurare il suo nome di leale ...».

Massimo non era un avversario di Cavour?

Neanche tanto. E in ogni caso più mangiapreti di lui, dato che era stato tanto tempo a Roma. La lettera continuava: « Il Piemonte soffre tutto, ma l’essere di nuovo messo sotto il giogo pretino, no, perdio... Non vada in collera con me. Questo atto è atto di galantuomo, di suddito fedele e di vero amico ».

Quindi? Richiamo di Cavour?

Oltre tutto Durando non riusciva materialmente a formare il governo. Aveva fatto tornare Villamarina da Parigi per dargli gli Esteri e quello, appena arrivato, andò da Vittorio Emanuele a consigliargli di richiamare Cavour. Tra l’altro fece capire di parlare anche a nome di Napoleone III. Infine Cavour restò in carica e approfittò della crisi per rimettere qualche ministro nel governo. Cibrario agli Esteri, Rattazzi agli Interni, De Foresta alla Giustizia, Lanza alla Pubblica Istruzione e tenendo per sé le Finanze. La legge sui conventi, un po’ emendata, passò anche al Senato. Quando la portò al re per la firma, Vittorio Emanuele, tutto sorridente, gli chiese: «Non si potrebbero mantener le Sacramentine? Mia madre e mio fratello ci tenevano tanto!».