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 2011  luglio 24 Domenica calendario

LA NUOVA MEDIOBANCA E L’ITALIA DI BISIGNANI

Il potere in Mediobanca, prima banca d’affari italiana, si va riconcentrando sempre più nell’alta dirigenza. Il processo era iniziato nel 2010 con la nomina di Renato Pagliaro presidente al posto di quel Cesare Geronzi che voleva far sentire la presa dei soci nella gestione, nonostante i conflitti d’interesse tra loro e con Mediobanca, essendo questi soci di banche, assicurazioni e industriali affidati. Si era poi consolidato, il processo, nella scorsa primavera con la cacciata di Geronzi da Generali, dove il banchiere romano aveva voluto trasferirsi contro l’opinione dei dirigenti. Ora la presa del potere dei manager si perfeziona nella riforma del comitato nomine, dal quale escono i delegati degli azionisti Dieter Rampl, Vincent Bollorè e Marco Tronchetti Provera. Formano il nuovo comitato, che detta la politica di Mediobanca in Generali, Telecom, Rcs, Pirelli e in altre società partecipate, i tre massimi dirigenti dell’istituto e due indipendenti. Ultimo, non banale passaggio sarà l’assemblea del 28 ottobre nella quale si prevede la riconferma di Pagliaro presidente, Alberto Nagel amministratore delegato e Francesco Vinci direttore generale. Il caso merita due letture. La prima è storica. Con il passo indietro di Bolloré e Tronchetti, decade in piazzetta Cuccia il ruolo di uomini che nel 2003, assieme a Geronzi, Fazio e Profumo, tutti fuori ormai dai giochi, avevano costretto alle dimissioni Vincenzo Maranghi. Il quale lasciò rifiutando sdegnato la buonuscita ma non l’applauso unanime dei dipendenti. La vicenda può essere letta come la vendetta dei manager di estrazione maranghiana, con il sostegno, spesso decisivo, di Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit e maranghiano pure lui. Ma la sostanza è che i soci accettano una concentrazione del potere formale nel management che non era così marcata nemmeno ai tempi del fondatore Enrico Cuccia e del suo delfino Maranghi. Quei due banchieri erano gelosissimi della loro autonomia. Lo stesso Raffaele Mattioli, che pure con Cuccia aveva progettato Mediobanca nel 1944 e considerava poi la sua Comit il reale socio di riferimento, lamentava di essere informato solo a cose fatte. E tuttavia il consiglio non era presieduto da un banchiere interno, ancorché il primo, grande presidente, l’avvocato Adolfo Tino, fosse fraterno amico di Cuccia. La lettura d’attualità parte dal fatto che la riforma è stata subìta sia dai francesi orfani di Geronzi che dal tedesco Rampl, convinto ad accettarla in extremis dai colleghi di Unicredit con il seguente argomento: poiché buona parte dei profitti viene dalle partecipazioni, lasciamo pieni poteri a Nagel e ai suoi e misuriamone i risultati. La primazia del management allontana la tentazione dello scambio improprio con i singoli soci. Non la elimina, perché è immanente nella struttura di Mediobanca. Cuccia seppe evitarla dicendo di no pure a Mattioli. Maranghi, seguendone l’esempio, perse il posto. Quelli erano leoni, direbbe il principe di Salina. Ma i manager in carica, se capaci e fortunati, hanno il potere per ruggire anch’essi, lasciando fuori dalla porta l’Italia dei Bisignani. Che con Geronzi aveva tentato l’intrusione.
Massimo Mucchetti