Diego Marconi, Domenica-Il Sole 24 Ore 24/7/2011, 24 luglio 2011
MANUALE PER SCRITTORI UMILI
«Non ho mai conosciuto una persona che non fosse interessata al linguaggio», ha scritto Steven Pinker, il celebre scienziato cognitivo del Mit. Questa citazione è riportata nel Dizionario di stile e di scrittura di Marina Beltramo e Teresa Nesci (appena edito da Zanichelli, Bologna, pagg. 1.312, € 29,00), dove serve a illustrare l’uso dei due punti; ma chissà se Pinker aveva in mente anche l’interesse per il linguaggio che è esemplificato appunto da questo Dizionario, in realtà un manuale organizzato in ordine alfabetico. Qui il punto di vista è quello del produttore di testi, e soprattutto di testi "umili": istruzioni per l’uso, presentazioni mediante diapositive (slides), siti web, lettere di raccomandazione, di reclamo e di dimissioni, sms, rapporti periodici, circolari. Dunque il libro non si rivolge tanto a chi scrive per professione (ricercatori, autori di fiction) quanto a coloro della cui professione la scrittura è una parte più o meno importante, cioè a moltissimi: in una società come la nostra, quasi tutti.
Peraltro, almeno a giudicare da quel che si legge, anche gli scrittori di professione hanno, o farebbero bene ad avere il tipo di dubbi che questo libro contribuisce a sciogliere: come si scrive il plurale di «camicia» (con la i), come si cita in bibliografia un sito web, se si debba usare il correttore grammaticale di Word (meglio di no), quando si scrive «sta» (indicativo) e quando «sta’» (imperativo), quando si adoperano le virgolette francesi (« »), quelle inglesi (" ") e quelle tedesche (’ ’), o, per i più raffinati, come si chiama quella specie di cediglia invertita che compare in certi caratteri usati in polacco e in lituano. Per non dire della punteggiatura, su cui l’incertezza è ormai quasi universale (se c’è l’inferno, quello del professore universitario consisterà nel correggere le virgole di un numero infinito di tesi triennali). Questo dizionario dà, al riguardo, indicazioni perentorie e molto utili: non capita spesso di leggere un libro che dedica quattro pagine al punto e virgola.
Ma nel Dizionario di stile c’è molto di più. Si spiega come fare un elenco (anzi, diversi tipi di elenchi), come si organizza un sito web, e che differenza c’è fra Ansi e Unicode; si insegna a costruire un indice analitico, a correggere le bozze, a creare una newsletter, a scrivere una relazione di tirocinio o un curriculum, a citare una registrazione musicale; si presentano i principali alfabeti, si dice come sono fatti gli acronimi (le sigle), come si scrivono e quando vanno usati; ci sono le unità di misura, i simboli chimici, logici e matematici, le valute, Isbn e Issn, titoli nobiliari e numeri romani, accenti e apostrofi, elisioni e troncamenti; si fa persino vedere quanto è grande (o meglio, piccolo) un microchip. Particolarmente apprezzabili gli esempi di riscrittura di testi complicati e poco leggibili, tra cui spiccano, ovviamente, quelli burocratici (il burocratese è qui descritto in tono scientificamente neutrale, ma l’effetto è devastante). Insomma, una vasta miniera di fatti e di regole, opus maius di due esperte docenti di scrittura non creativa, una delle quali, Teresa Nesci, è anche lessicografa.
Si sarà capito che il Dizionario è un libro spudoratamente normativo, che non si fa scrupolo di asserire che si dice così e non si dice cosà. La qual cosa farà storcere il naso a non pochi scienziati del linguaggio, tra cui il sopra citato Steven Pinker. Nel suo giustamente famoso L’istinto del linguaggio Pinker dedica un capitolo di invettive ai guru linguistici, che sui giornali esecrano strafalcioni lessicali e violazioni di (presunte) regole di grammatica. Il punto di Pinker, e di molti altri, è che il linguaggio funziona come funziona in virtù della biologia umana: le vere regole della grammatica sono insediate nella nostra mente, e non sono violate più di quanto possano essere elusi i meccanismi della digestione. Quelle che i guru chiamano "regole" «non hanno a che fare col linguaggio umano più di quanto i criteri con cui sono giudicati i gatti in un concorso di bellezza per gatti abbiano a che fare con la biologia dei mammiferi». Sono, cioè, questione di eleganza e buone maniere, non di struttura del linguaggio.
Pinker ha ragione: che "sebbene" regga il congiuntivo o che non si debba mettere la virgola tra soggetto e predicato ha poco a che fare con le basi biologiche del linguaggio. E tuttavia, perché prendersela con le buone maniere? Specialmente quando facilitano la comprensione e la comunicazione, o evidenziano distinzioni importanti e utili. Per esempio: "si dice" «So che Piero è arrivato (indicativo), ma credo che Maria non sia venuta (congiuntivo)». Perché? Perché l’uso di "sapere" implica la verità del suo complemento (non si può sapere qualcosa di falso), mentre l’uso di "credere" no (si può credere qualcosa di falso). È così in qualsiasi lingua, ma l’italiano ha il pregio di grammaticalizzare la distinzione, mentre l’inglese, ad esempio, non ha questa virtù; e i parlanti dell’italiano farebbero bene a tenersela stretta. Tra l’eleganza e la biologia, ci sono molte cose interessanti.