Roberto Turno, Il Sole 24 Ore 24/7/2011, 24 luglio 2011
SANITÀ, IN 10 ANNI 38 MILIARDI DI DEFICIT
Un dato più di tutti fotografa nitidamente la drammaticità della situazione: per il 48% degli italiani l’assistenza sanitaria pubblica è sotto tutela. O è commissariata (Lazio, Campania, Calabria, Abruzzo, Molise) con tanto di super addizionali Irpef e Irap, oppure è comunque sotto controllo del Governo con i piani di rientro dai deficit (Piemonte, Puglia, Sicilia). Come dire che per un italiano su due – curiosamente quasi la stessa percentuale delle esenzioni riconosciute dai ticket – il sistema di tutela della salute è già pericolosamente in bilico. E questo dopo che in dieci anni, dal 2001 al 2010, sono stati accumulati 38 miliardi di disavanzi, 646 euro di debito a cittadino, che diventano però 2.460 nel Lazio, 1.991 nel povero Molise e 1.483 in Campania.
È (anche) da questi numeri che parte la riflessione del settimo punto del «Manifesto» del Sole 24 Ore per la crescita. «Definire un patto di stabilità interno effettivamente non derogabile sui parametri dei costi standard per la spesa sanitaria». Proposta tutta da riempire di contenuti. Ma certo qualsiasi riflessione sul futuro dell’universalismo che potrà restare della sanità pubblica, non può non partire almeno da tre considerazioni di fondo. La prima: il federalismo fiscale e i costi standard che dal 2013 dovranno diventare gradualmente la pietra filosofale del buon governo di asl e ospedali. La seconda: il taglio pressoché scontato delle prestazioni essenziali (i Lea) oggi garantite, col prevedibile spazio che sarà lasciato alla sanità integrativa, se non sempre di più a forme sostitutive come le assicurazioni, per chi potrà permettersele, col risultato di segnare un sempre più impetuoso ritiro dello Stato dal "tutto a tutti" che già oggi è una chimera. La terza considerazione, collegata a doppia mandata alle prime due: il gap tra le Regioni nell’offerta di servizi e nel governo del sistema locale, col Sud (da Roma in giù) che è sempre più un’Italia "altra" di offerte in meno e di qualità inferiore.
È in questi frangenti che è precipitata la manovra dei cinque giorni per il pareggio di bilancio entro il 2014, solo un aperitivo dei tagli che potrebbero ancora arrivare. Per il Ssn la manovra vale 7,5-8 miliardi di riduzione di trasferimenti in tre anni. E ancora di più dopo il 2014, quando si conta di far entrare a regime i costi standard incidendo sul tendenziale di spesa con la speranza di fare dei costi standard virtù di bilancio. Un taglio che potrebbe avere un effetto boomerang: perfino le Regioni "virtuose", mettono in guardia i loro stessi governatori, rischiano di precipitare nel baratro dei piani di rientro, l’anticamera dei commissariamenti. E a quel punto, altro che 50% dell’Italia della salute sotto tutela. Altro che federalismo e costi standard. Con tutto il mondo della sanità – un universo che vale come la terza o quarta industria del Paese – che scalpita. I medici che non solo drammatizzano gli effetti dei tagli che metteranno pesantemente a rischio i servizi negli ospedali. E le stesse imprese che lavorano per il Ssn sempre più in balia delle incertezze di un sistema sottofinanziato che deprimerà investimenti e ricerca. E occupazione. Altro che sanità "volano della crescita".
Un nuovo «patto», dunque, tutto da fare. Quello attuale scade nel 2012 e la manovra propone alle Regioni una semplice «intesa» che ai governatori non va affatto giù. È tutto da discutere, sostengono e rilanciano. Non è un caso che tra i conti nascosti ci sono fin dal 2012 almeno 860 milioni l’anno di ammortamenti non sterilizzati per gli investimenti da reperire. Per non dire dei casi singoli. Prendiamo il Lazio: con un prestito trentennale da rimborsare, ogni mattina i suoi cittadini devono pagare tutti insieme un mutuo che vale 1 milione al giorno. Missione impossibile?
Eppure, tra «patto» attuale e piani di rientro qualcosa è capitato in questi anni. E non solo in negativo. Il «patto» funziona, ha ammesso la Corte dei conti. Tanto che nel 2010 il deficit è stato «soltanto» di 2,3 miliardi. Dal 2001 i ricoveri sono diminuiti del 17% col Sud che naturalmente ha dovuto fare di più, dal -33% in Abruzzo al 28% in Calabria. I posti letto sono dimagriti di 32.357 unità (-11%), il personale dipendente è aumentato appena dello "zero virgola". Le stesse voci di spesa sanitaria nel 2010 per comparto la dicono lunga. Intanto, dal 2006 al 2009 l’aumento maggiore della spesa ha riguardato l’acquisto di beni e servizi (+7,6%) e nel 2010 la specialistica (+6,1%), con la farmaceutica territoriale che è sempre ai minimi (-3,7% nel 2006-2009 e -0,7% nel 2010).
Certo la spesa non dice tutto. Quel che vale per la gente sono – che intanto paga – i servizi e la loro qualità. Ebbene, forse non è un caso che nel 2009 per numero di parti cesarei (38,3% in media nazionale) la Campania (62%), la Sicilia (53%) e il Molise (48,5%) battono tutti. O che le fratture operate entro due giorni (33,5% in media nazionale) siano solo il 16% in Campania, il 16,5% in Puglia, il 17,5% in Sicilia, contro l’83% a Bolzano, il 60% nelle Marche e il 53% in Toscana. O ancora, che per i ricoveri inappropriati da trattare diversamente da Roma in giù ci siano le percentuali peggiori. Per inciso: i Lea oggi sono garantiti solo in 8 Regioni: Lombardia, Emilia, Toscana, Marche, Piemonte, Umbria, Veneto, Liguria.
Il ritornello è sempre lo stesso: spesa che sprofonda e qualità peggiore vanno specularmente a braccetto. Le mille Italie della salute. O meglio: l’Italia della salute spaccata in due. Che il federalismo possa essere la migliore (e più sicura) medicina sarà tutto da dimostrare. Ma sicuramente i costi standard, se ben tarati senza fughe in avanti, sotto il versante del servizio e della qualità, non potranno fare solo del male. Con un «patto» nuovo e garantito per tutti. Ma granitico, senza quelle scappatoie che i mercati non ci perdonerebbero. E che gli assistiti ormai non gradiscono più.