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 2011  luglio 25 Lunedì calendario

COSI’ HO AFFONDATO IL TITANIC (E DETTO ADDIO AL TEATRO)

Ho fatto di recente alcune esperienze teatrali che può essere di qualche utilità meditare, per lettori-spettatori interessati. Fatta in età avanzata, il corpo deformato da una implacabile scoliosi, con l’aiuto di bastoni, stampelle, braccia affettuose, non è stata una prova molto brillante, ma aveva la giustificazione di essere un addio al teatro per resa al tempo e alla necessità. Tuttavia eccomi qua, mordicchiato dalla tristezza in cui la rinuncia alla scena mi ha gettato.
Il teatro, oltre che inseparabile dall’esistere civile umano, è come l’amore un contatto con l’infinito. Questo, per chi lo fa, per chi in scena parla e dice... Fare arrivare allo spettatore ascoltante la forza di certe battute, procurargli vertigine, non è soltanto arte dei grandi attori: è la scoperta a volte repentina di chiunque lavori in scena, è opera del demone sonoro, che gli spagnoli hanno chiamato duende. I miei attori hanno sempre sentito la presenza del duende che viene quando vuole e senza perché, come un fungo.
Non intendo, per ora, rinunciare a seguirli e ad assisterli nel provare, specie se si tratta di lavoro su testi miei. Ma qui insorge un ostacolo molto grave: le prove sono sempre insufficienti. L’obbligo del debutto scatta spesso dopo due, tre giorni soltanto di prove. Il bilancio non consente di più e neppure la libertà dei partecipanti di essere indipendenti da altri incalzanti impegni. La giornata vola e le idee decisive, ispirate dal duende, vengono quasi sempre quando fa buio. La creatività non è routiniera. Ti resta il rimpianto che, con almeno un giorno di più per provare, si sarebbe potuto debuttare con qualcosa di strepitoso. Quando lavoravo in appartamento, per allestire uno spettacolo di marionette impiegavamo più mesi. Oggi mi accontenterei di sei, sette giorni, con quattro o cinque attori professionisti. Ma nelle mie attuali condizioni fisiche avrei bisogno di stabilire io stesso il tempo delle prove occorrenti per evitarmi lo stress e garantire un esito il più possibile enduendado all’ipotetico, amato committente.
I costi del teatro variano dall’enorme al minimo, al quasi zero. Enormi sono i costi del teatro d’opera; quasi zero i costi del teatro di strada. Dal 1997, già vecchio di settanta ma ancora bene deambulante, sono stato per molti anni teatrante di strada e suonatore d’organo di Barberia, facendo tournées estive all’aperto e in sale chiuse in primavera e autunno, e i nostri compensi in strada sono stati maggiori di quando si è trattato di lavorare con grandi enti, che hanno pesanti spese burocratiche anche per ingaggi appena palpabili: le condizioni fatte dai Comuni, diaria e ospitalità compresa, non sono mai state di lesina, ma questo è dovuto alla mia speciale, anomala, decisamente privilegiata situazione di essere invitato come scrittore-che-fa-teatro e non semplicemente come artista di strada non proiettante che la propria ombra e di questo anche i miei compagni occupatori di suolo pubblico con le loro colorate carabattole (ombrellini e paraventi dipinti, manifesti, grammofoni a 78 giri, sveglie, cappelli) hanno beneficiato.
Un numero che ricordo tra i più riusciti e divertenti fu il naufragio del Titanic. Eravamo in tre strappapplausi, bene determinati a farlo affondare e perfino marcire in fondo all’oceano: Rosanna Gentili, Bartolo Incoronato e io — alle prese con una gigantesca marionetta che rappresentava la nave; un drappo azzurro animato la accarezzava di presagio come la bonaccia atlantica... Un emblema del secolo! E lo evocava un segmento di asfalto, riemergeva dai fondali (quattromila metri di profondità) su un marciapiedi, tra profili di antica Italia in perdizione, dove non erano ammessi che i pedoni... (chi fosse passato in auto o moto sarebbe stato mitragliato).
Della strada come teatro-avente-futuro (strada come radicale antitesi di Scala) sono stato e resto teorico, predicatore, amico: ma oggi ho dubbi che mi lacerano, la qualità degli spettacoli di strada è mediocre o del tutto scadente, povera o priva di regia vigile, il volo è raro; ci vuole più cura e più (non basta mai) arte. Inoltre va trovato e educato un pubblico.
Gli artisti di strada trovano pubblico in abbondanza nei festival d’estate (Certaldo, Aurillac, ecc.): in orari precisi la gente accorre. Quando si va allo sbaraglio, cosa bellissima, teatralissima, senza appuntamento, senza tamburo circense, non si ferma un’anima ad ascoltarti e applaudirti. La tonica uniforme del traffico urbano, le amplificazioni scellerate, i decibel da discoteca hanno reso i timpani del tutto insensibili ai suoni moderati e carezzevoli. Non basta trovarsi in aree pedonali: l’orecchio umano al tuo richiamo è sordo.
L’ho sperimentato di recente, lavorando con un bel gruppo che cantava e suonava con bravura in una piazza molto frequentata da una folla domenicale disoccupata. Avremo per caso acchiappato un’anima? Non ci vedevano neppure. In cima al Dente del Gigante forse un’aquila avrebbe volato basso per ascoltarci.
Guido Ceronetti